Poesie scritte di Mark Strand | L’Altrove
Ciò che resta
Mi svuoto dei nomi degli altri. Mi svuoto le tasche.
Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada.
Di notte metto indietro gli orologi;
apro l’album di famiglia e mi guardo bambino.
A che giova? Le ore hanno fatto il loro dovere.
Dico il mio nome. Dico addio.
Le parole si inseguono nel vento.
Amo mia moglie ma la ripudio.
I miei genitori si alzano dai troni
nelle stanze lattee delle nubi. Come posso cantare?
Il tempo mi dice ciò che sono. Cambio e sono lo stesso.
Mi svuoto della mia vita e resta la mia vita.
(Traduzione di Damiano Abeni)
da L’inizio di una sedia, Donzelli Poesia
Tenere insieme le cose
In un campo
io sono l’assenza
del campo.
È
sempre così.
Ovunque sia
io sono ciò che manca.
Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria rifluisce
a riempire gli spazi
in cui era stato il mio corpo.
Abbiamo tutti motivi
per muoverci.
Io mi muovo
per tenere insieme le cose.
(Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan)
da Motivi per muoversi, in Tutte le poesie, Mondadori
Luna
Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, la luna sempre, appare
tra due nuvole, spostandosi così piano che parrà
siano trascorse ore prima che tu giunga alla pagina seguente
dove la luna, ora più luminosa, fa scendere un sentiero
per condurti via da ciò che hai conosciuto
entro i luoghi in cui quello che ti eri augurato si avvera,
la sua sillaba solitaria come una frase sospesa
sull’orlo del significato, in attesa che tu ne dica il nome
una volta ancora mentre alzi gli occhi dalla pagina
e chiudi il libro, sentendo ancora com’era
soffermarsi in quella luce, quell’improvviso paradiso di suono.
(Traduzione di Damiano Abeni)
da Uomo e cammello, Mondadori
Cos’era
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; il suo azzurro, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori di se stesso, fuori di qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto entro un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che affoga
in sé, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo vuoto tenero, piccolo che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, essendo stato, era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lasciò sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo ore, giorni. Era quello. Solo quello.
(Traduzione di Damiano Abeni)
da L’inizio di una sedia, Donzelli Poesia
La storia della poesia
I nostri maestri se ne sono andati e se tornassero
chi tra noi li sentirebbe, chi riconoscerebbe
il suono corporeo del paradiso o il paradisiaco
suono del corpo, infinito ed evanescente, che dava sintonia
ai nostri giorni prima che le stelle roteanti
venissero private di ogni potere? La risposta è
nessuno di noi qui. E cosa significa se vediamo
le montagne invetriate di luna e il paese con le porte
e i serbatoi piezometrici muti, e ci viene da alzare la voce
un poco, o a volte a fine autunno
quando la sera fiorisce un momento sui monti a occidente
e ci immaginiamo angeli che si precipitano lungo gli scalini freddi
dell’aria per augurarci il bene, se abbiamo perso ogni volontà
e non facciamo altro che poltrire, udendo e non udendo, i sospiri
di questa o quella brezza vagare senza meta sulle fattorie in malora
e i giardini sterili? Questi giorni quando ci svegliamo
ogni cosa risplende della stessa luce celeste
che colmava il nostro sonno qualche minuto prima,
così non facciamo altro se non contare alberi, nubi,
i pochi uccelli rimasti; poi decidiamo che non dovremmo
essere severi con noi stessi, che il passato non era meglio
di adesso, perché non è forse sempre esistito il nemico,
e la chiesa del mondo non era già in macerie?
(Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan)
da La vita ininterrotta, in Tutte le poesie, Mondadori