Riscoprire i poeti

La poesia del lavoro di Luigi Di Ruscio | L’Altrove

è già tanto che il miracolo della mia esistenza ci sia stato / riuscendo perfino a testimoniarvi tutti

Si presentava con questi versi Luigi Di Ruscio, fine poeta e forse poco conosciuto.
Fu un poeta che scrisse di miseria, di lavoro, di vita vissuta in fabbrica e di morti sul lavoro.

Nacque a Fermo il 27 gennaio 1930, non ebbe nemmeno modo di studiare e conseguì soltanto la licenza elementare. Già da ragazzo iniziò a lavorare e svolse diversi mestieri, per trasferirsi poi in Norvegia e lavorare per quarant’anni in una fabbrica metallurgica. Raccontò questi anni nei due romanzi che scrisse, Palmiro (1986) e La neve nera di Oslo (2010), romanzi autobiografici che portano i segni di tutto ciò che visse.

I suoi testi sono un esempio di umanità vera e attualità, un lascito crudo ma veritiero, reale e schietto. Di Ruscio sicuramente non scrisse o selezionò per le sue raccolte poesie belle a leggersi, o che si attenevano ad uno standard di solennità nello stile e nel linguaggio, al contrario ci riporta nella violenta concretezza del lavoro. Le sue Poesie operaie non vogliono essere intese come poesie scritte da un poeta che lavora con e per il verso, ma di un uomo che si affatica, si rivolta, che soffre, che suda, che muore sotto i ferri del suo mestiere.

La poesia di Luigi Di Ruscio è quindi poesia di testimonianza, fatta di versi creati da fatti accaduti in un momento storico per l’Italia e il mondo traumatico ma anche di ripresa e di lotte.

Il suo esordio, nel 1953, con Non possiamo abituarci a morire porta la prefazione di un altro grande autore del dopoguerra: Franco Fortini. L’ultima e postuma raccolta, invece, è Poesie scelte 1953-2010 pubblicata da Marcos y Marcos nel 2010 e a cura di Massimo Gezzi.

Di seguito una selezione di sue poesie tratte dalle sue opere:

È morto lavorando
ottant’anni l’ha passati sulla fatica
sulla fossa ha la croce di latta
un numero e un mucchio di terra
andava a tutte le manifestazioni di partito
diceva che non avrebbe voluto il prete
ma la paralisi
non lo fece parlare.


Per colazione hanno acqua e pane
bevono molta acqua
la saliva che hanno devono sputarla sulle mani
perché il martello non scivoli
a mezzogiorno mettono nel brodo d’erbe
il solito pane nero
al coprirsi del sole se io sono pieno di malinconia
per loro è bello tornarsene a casa ridendo
sedersi in famiglia giocare con i figli
dopo dieci ore di lavoro sulle pietre
per quel poco pane e perché la moglie
continui a fare per ultimo il piatto
perché a nessuno manchi la parte.


La pensione da impiegato comunale
è di ottomila al mese quarant’anni di fatica
per pane e formaggio grattugiato
per imparare a stendere la mano e morire solo
oppure finire al ricovero dei vecchi
ubbidire a bacchetta la madre superiora
alzarsi presto imparare a pulirsi l’anima
per avere un pasto abbondante
e morire in un posto fatto per i vecchi
perché crepino senza dare fastidio.


venne la pioggia lasciammo le carrette sulla strada
con la giacchetta sulla testa corremmo verso la capanna di lamiera
huardavamo la pioggia che ci rovinava la giornata
e che batteva felice sulla lamiera ondulata
vedevo la pioggia scolare dalle tante ondulazioni della lamiera
una pioggia che cadeva su tutte le terre e tutte le erbe
risento ancora l’odore di tutta quella pioggia
e forse anche chi legge risentirà quell’odore


è morto con la testa spaccata sul selciato
sporco di olio benzina sangue
e senza dignità buttando pezzi di cervello
tutta la nostra fragilità davanti ai mostri
in quello spavento del cozzo in quell’ultimo istante
con gli occhi scoppiati vedere la vita che esplode.


È morto lavorando
ottant’anni l’ha passati di fatica
sulla fossa ha la croce di latta
un numero e un mucchio di terra
andava a tutte le manifestazioni del partito
diceva che non avrebbe voluto il prete
ma la paralisi
non lo fece più parlare.


il colpo di martello che spezza il mattone
o il verso allucinato che smaglia
guardare la cosa mentre ci accieca
l’improvviso bagliore della fiamma ossidrica
o quello che cadde nella vasca della calce viva
scavata la fossa scaricate le pietre cotte
poi con l’acqua tutto ribolliva e fumava
il ribollire delle pietre cotte fu l’ultima cosa che vide

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