Riscoprire i poeti

Trilussa: tra denuncia sociale e fiabesco dialettale | L’Altrove

Trilussa, al secolo Carlo Alberto Camillo Salustri, fu senza dubbio il più grande poeta vernacolare della storia d’Italia. Egli nacque a Roma il 26 ottobre 1871 da Vincenzo, cameriere originario di Albano Laziale, e Carlotta Poldi, sarta bolognese. Secondo figlio dei Salustri, fu battezzato il 31 ottobre nella chiesa di San Giacomo in Augusta. Un anno dopo, nel 1872, la sorella Elisabetta morì all’età di tre anni a causa di una difterite. L’infanzia travagliata del giovane poeta venne colpita nuovamente due anni dopo, il 1º aprile 1874, a causa della morte del padre Vincenzo. Carlotta Poldi, dopo la morte del marito, decise di trasferirsi con il piccolo Carlo in via Ripetta, dove rimase per soli undici mesi, per poi trasferirsi nuovamente, nel palazzo in piazza di Pietra del marchese Ermenegildo Del Cinque, padrino di Carlo. Probabilmente è alla figura del marchese Del Cinque che Trilussa dovrà la conoscenza di Filippo Chiappini, poeta romanesco seguace del Belli. Dal 1977 al 78 frequentò le scuole municipali San Nicola. Nel 1880 sostenne l’esame per essere ammesso al Collegio Poli dei Fratelli delle scuole cristiane, ma avendo sbagliato una semplice sottrazione, fu costretto a ripetere il secondo anno. Carlo continuò a trascurare la scuola e nel 1886 si ritirò definitivamente dagli studi. Continuò però a studiare per suo conto e ad avvicinarsi sempre di più al mondo della poesia vernacolare. L’esordio sulla grande scena romana lo ebbe a soli sedici anni, quando nel 1887, presentò a Giggi Zanazzo, poeta dialettale direttore del Rugantino, un suo componimento chiedendone la pubblicazione. Il sonetto di chiara ispirazione belliana, recava titolo L’invenzione della stampa, partendo dall’invenzione di Johann Gutenberg sfociava, nelle terzine finali, in una complessa e aggrovigliata critica alla stampa contemporanea:

Cusì successe, caro patron Rocco,
Che quanno annavi ne le libbrerie
Te portavi via n’ libbro c’un baijocco.

Mentre mo ce so’ tante porcherie
De libri e de giornali che pe n’ sordo
Dicono un frego de minchionerie.

Fin dalla tenera età, nella poesia di Trilussa, risuonano quei temi sociali che poi porterà a maturazione. La denuncia sociale sarà sempre in prima linea, anche se spesso risulterà celata dall’increspato dialetto romanesco. Con un linguaggio arguto, Trilussa ha commentato circa cinquant’anni di cronaca romana e italiana, dall’età giolittiana agli anni del fascismo e a quelli dell’immediato dopoguerra. Nei suoi componimenti non mancarono mai l’ironia e l’autoironia, come in A chi tanto e a chi gnente!, nella quale si identifica nel poeta pazzo:

Da quanno che dà segni de pazzia,
povero Meo! Fa pena! È diventato
pallido, secco secco, allampanato,
robba che se lo vedi scappi via!
er dottore m’ha detto: – È ‘na mania
che nun se pò guarì: lui s’è affissato
d’esse un poeta, d’esse un letterato,
ch’è la cosa più peggio che ce sia! –
Dice ch’er gran talento è stato quello
che j’ha scombussolato un po’ la mente
pe’ via de lo sviluppo der cervello…
Povero Meo! Se invece d’esse matto
fosse rimasto scemo solamente,
chi sa che nome se sarebbe fatto!

Spesso nascose la sua aspra critica classista dietro ai protagonisti sotto forma di animali, un po’ come duemila anni prima di lui aveva fatto lo scrittore latino Federo. Un esempio di ciò è costituito dal componimento L’uguaglianza:

Fissato ne l’idea de l’uguajanza
un Gallo scrisse all’Aquila: – Compagna,
siccome te ne stai su la montagna
bisogna che abbolimo ‘sta distanza:
perché nun è né giusto né civile
ch’io stia fra la monnezza d’un cortile,
ma sarebbe più commodo e più bello
de vive ner medesimo livello.-
L’Aquila je rispose: – Caro mio,
accetto volentieri la proposta:
volemo fa’ amicizzia? So’ disposta:
ma nun pretenne che m’abbassi io.
Se te senti la forza necessaria
spalanca l’ale e viettene per aria:
se nun t’abbasta l’anima de fallo
io seguito a fa’ l’Aquila e tu er Gallo.

Trilussa, dai contemporanei, non fu mai preso seriamente, o almeno con la serietà che per i temi trattati e l’architettura dei componimenti gli spettava di diritto. Solo negli ultimi anni è stato giustamente collocato tra i grandi poeti del primo Novecento italiano.

A cura di Riccardo Renzi.

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