Giornata contro la violenza sulle donne: “Still We Sing” | L’Altrove
Come contrastare la misoginia, la mascolinità tossica, le strutture patriarcali in ogni strato della società? Chiudere le porte, nascondere la rabbia, nascondere se stesse, piangere o aprire le finestre, fare un passo e gridare? Cantare ad alta voce?
A queste domande si eleva una risposta univoca: Still We Sing, ancora cantiamo. Quelle voci di donne violentate, uccise, torturate, ridotte ad oggetto, si fanno ancora sentire, vive e chiare. Non si è spento il loro canto e mai lo farà.
Still We Sing: Voices on Violence against Women è il titolo di una raccolta di poesie, non una semplice antologia, ma un libro che scuotere le nostre coscienze, rendendoci consapevoli dell’ingiustizia che ci circonda. Una raccolta di poesie di poeti donne provenienti da tutta l’Asia meridionale, il libro tratta della violenza di genere che dilaga in questa parte del mondo. Indipendentemente dai confini, India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, portano tutti questo terribile stigma, che riporta queste nazioni indietro di secoli.
Il libro è curato e introdotto dalla poetessa Sarita Jenamani, nata in India e residente in Austria, ed è scritto in inglese e in diverse lingue dell’Asia meridionale
Molte poesie qui suonano come grida di donne. Una delle più toccanti è First They Raped Manamperi di Shamila Daluwatte dello Sri Lanka. Manamperi fu una reginetta di bellezza e venne arrestata perché sospettata di aver guidato un gruppo ribelle in un’insurrezzione nel 1971. Venne consegnata all’esercito e da loro fu torturata, violentata, fatta sfilare nuda per le strade e uccisa.
Allo stesso modo, il testo della poetessa indiana Usha Akella, Naming, parla di Jyoti Singh che fu vittima di uno stupro di gruppo nel dicembre 2012 ed morì in seguito per le ferite riportate. La poetessa dello Sri Lanka Damayanthi Muthukumaranage affronta la violenza che le donne subiscono per mano dei loro mariti; Ambreen Salahuddin dal Pakistan in Shameless Women capovolge la credenza islamica secondo la quale la loro divinità aspetterà gli uomini in paradiso per soddisfare la loro lussuria come ricompensa divina. Con lei Zehra Nigah, Fahmida Riaz e Sara Shagufta affrontano con le loro parole il sistema patriarcale pakistano ed asiatico in generale.
Usha Kishore scrive:
Do I weep for myself,
for I am lost hope, beating
my weathered bosom
in the annals of history?/Or do I re-write myself
as Kali incarnate
trampling a nation’s shame?
Molti sistemi sociali in tutto il mondo affrontano il fenomeno a parole, ma pochi hanno mostrato la loro volontà di tentare di sanzionare i colpevoli e proteggere le vittime. La violenza di genere ha raggiunto dimensioni oltraggiose a causa di un sistema sociale di genere, che ha approvato la costruzione di una tradizione di mettere a tacere il problema e le vittime con l’aiuto di una serie di agenti coinvolti nella propagazione di questa tradizione. Tuttavia, è proprio la tradizione del silenzio che dimostra che ai testimoni e alle vittime della violenza maschile è impedito di rivelare la loro vittimizzazione.
Libri come questo frantumano questo silenzio, Nalini Priyadarshni, nel poema introduttivo scrive:
Guilt is not only for evil doers
It’s also the gift of our collective consciousness tot he girls
who turn a deaf earnto laments that follows their birth
and refuse to die.
La scrittura è la loro arma per contrastare la violenza, inoltre consente alle donne di riconoscere la propria forza interiore pronunciando l’indicibile. Il silenzio, invece, lascia le donne prive di solidarietà, ma le parole uniscono le vittime. In molte società si può trovare la tradizione della poesia orale per contrastare l’ingiustizia. La poesia dà alle vittime coraggio e conforto.
Molte delle poesie raccolte sono forti reazioni ad atti di violenza di genere che attirarono l’attenzione dei media. Ci sichiede allora chi canterà delle migliaia di donne che vengono torturate in modo simile, ma le cui storie non ascolteremo mai.