La poesia dopo la Shoah per Paul Celan e Nelly Sachs | L’Altrove
«Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie.»
Così scriveva Theodor Adorno nel saggio Critica della cultura e della società. Adorno era convinto che il poeta rimanesse ammutolito, senza più voce, dopo il terrore vissuto. Arginare la sofferenza, o quantomeno contenerla, sarebbe stato impossibile per chiunque, soprattutto per coloro che vivevano di poesia e scrittura. Il linguaggio, in questo casi, si sarebbe trasformato in silenzio e quanto formulano dal filosofo divenire quasi un dogma.
Un evento così capace di turbare nel profondo ogni individuo e di stravolgere l’intero mondo, non lasciava spazio alla poesia, ma la potenza della parola poetica vinse anche sulla tragedia, divenne modo per raccontare le atrocità, le morti.
Tra i tanti poeti che vissero l’orrore dell’Olocausto, Paul Celan e Nelly Sachs, furono quelli che in quegli anni e nei successivi ricercarono la comunicazione persa, l’atto simbolico e di testimonianza.
Era l’aprile del 1945 quando Paul Celan abbandonava la sua città natale, Czernowitz (oggi in Ucraina), per trasferirsi a Budapest e scapare alla morte. La deportazione e la scomparsa dei genitori, entrambi morti per mano dei nazisti, segnarono moltissimo la vita del poeta (fu ricoverato diverse volte per depressione e morì suicida nel 1970). L’esperienza personale del ghetto e la sofferenza universale delle vittime vennero incise nella sua poesia Todesfuge (Fuga di morte). Composta nel maggio del ’45, il testo è un grido a non dimenticare la crudele realtà dei campi di concentramento.
Fuga di morte
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno e voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina e beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith.
Per Celan scrivere è un trasmettere, Auschwitz diviene il «ciò che è stato», il passaggio verso un nuovo uso della parola.
Più avanti con Nelly Sachs, il poeta instaurò un lungo dialogo. Entrambi ebrei, entrambi sopravvissuti allo sterminio, Celan e Sachs si ritrovarono fratelli, «esuli di lingua straniera», si ritrovarono a leggersi e a scriversi. In più di quindici anni di scambi epistolari, i due poeti cercano di colmare il vuoto che la guerra e il regime aveva lasciato in loro. «Con le Sue poesie Lei mi ha dato una patria, una patria che credevo avrei conquistato solo con la morte. Così resisto su questa terra», così Nelly Sachs in una lettera del 19 dicembre 1959, tratta da Corrispondenza, edito da Giuntina.
Le vite dei due scrittori ci appaiono in stretto contatto l’una con l’altra, sebbene siano state diverse e separate. La corrispondenza tra i due si eleva allora come la parola nell’indicibile. In un’epoca di silenzio indotto e voluto, in cui le parole risultavano inutili, inservibili per descrivere una società sconvolta, un’umanità scomparsa, Celan e Sachs rievocano immagini potenti, si identificano in un linguaggio, restaurano una lingua – entrambi scriveranno in tedesco, la lingua dei loro aguzzini – per identificarsi, ricreare un soggetto, un’eredità dalla catastrofe, poiché alla catastrofe dovevano sofferenza e dolore, ma anche tensione verso una nuova libertà e realtà.
Ogni poesia di Paul Celan e di Nelly Sachs è stata una scelta dolorosa ed inevitabile. Sono poesie che sfidano la rottura. Quasi un flusso di coscienza, le immagini e le parole che si intuiscono, provengono da sotto la superficie, quasi come una meditazione o una “scrittura automatica”. «La morte è stata la mia maestra. Come avrei potuto scrivere di altro? Le mie metafore sono le mie ferite. Questo è l’unico modo per capire il mio lavoro», scrive la poetessa.
È la Sachs che nella sua lirica Coro dei superstiti ripercorre l’oscurità, la deformazione, la spersonalizzazione, e la distruzione dell’Io.
Coro dei superstiti
Noi superstiti
dalle cui ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui cui tendini ha già passato il suo archetto –
I nostri corpi ancora si lamentano
col loro canto mozzato.
Noi superstiti
davanti a noi, nell’aria azzurra,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli –
le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.
Noi superstiti,
ancora divorati dai vermi dell’angoscia –
la nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi superstiti
vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.
Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore
a stento sigillato
e farci schiumar via –
Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che ci disfiamo in polvere
davanti ai vostri occhi.
Ma cosa tiene unita la nostra trama?
Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a Lui alla mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell’arca dell’istante –
Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi –
ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,
l’addio nella polvere
ci tiene uniti a voi –
In un’altra lettera indirizzata a Paul Celan sempre la Sachs scrive: «Tra Parigi e Stoccolma passa il meridiano del dolore e della consolazione», lo scriversi e il cercarsi fu dunque per i poeti salvifico. Quel meridiano – la Sachs qui cita uno scritto di Celan – è il non-luogo, è la rappresentazione della speranza, l’utopia del superstite.
La poesia, nonostante l’oscurità, rimane lo spazio esistenziale e benefico, carica di mondo.