Estratto da “Teatrin de vozhi e sienzhi” di Renzo Favaron | L’Altrove
«Xe ’ncora tuto rosso, / cofà ’na ferìa che no’ se inciava» [« È ancora tutto rosso, / come una ferita che non si chiude», Cue’a che credo (soneto), p. 2]: è racchiusa in questo distico, che chiude il sonetto incipitario, la chiave della presente silloge di Favaron, inscritta nel segno del lutto e della perdita irredimibile. […] Ad accamparsi in primo piano sulla scena, con pronunciate incursioni stilistiche non nuove in Favaron nei domini del teatro, anche sulla scorta della lezione di Palmieri, del Cavalcanti più tragico o del Montale della Bufera, è un dolore muto e senza redenzione, ma non senza oggetto, che si palesa manifestamente nel nome stesso della madre, destinataria di una lettera mai spedita e quasi incarnazione della donna dei dolori. […] Più che alla concreta e materica fisicità dei volti o dei corpi, il poeta si affida nell’evocare i propri cari nel suo duetto/duello con la morte allo strumento dei suoni e delle voci, grazie alla mediazione della poesia, come un novello Orfeo.
Dalla prefazione di Maurizio Casagrande.
Inbonbegà
Inpisso la sigaretta.
Stuo la radio.
Ciapo l’onbrea.
Vago fóra.
Passeio on poco.
La facia in-te a note,
spuncià da fari e fanai.
Gò perso, trovando.
Sito morta? Sito viva?
Sero l’onbrea.
Xe chi, al peto, che piove.
Torno a casa.
Inpisso la radio.
Perdendo, gò trovà.
Sito viva? Sito morta?
La piova no’ sbonassa.
Chi, in saoto, verzho l’onbrea.
So inbonbegà.
Me confido.
Senzha dire ’na parola
solo co’l respiro.
Fradicio
Accendo la sigaretta.
Spengo la radio.
Prendo l’ombrello.
Esco.
Passeggio un poco.
La faccia nella notte,
trafitta da fari e fanali.
Ho perso, trovando.
Sei morta? Sei viva?
Chiudo l’ombrello.
È qui, al petto, che piove.
Rincaso.
Perdendo, ho trovato.
Sei viva? Sei morta?
La pioggia non cessa.
Qui, in salotto, apro l’ombrello.
Sono fradicio.
Mi confido.
Senza dire una parola
solo con il respiro.
Bisogna (vozhe de me mama)
Xe la fine de ogni roba,
lo conprendo, el pónto
dal cua’e no’ xe fazhie
ciapare le distanzhe.
Te lo’ssè ben anca ti:
pì ’na roba se fa dura,
pì bisogna farzhela amica.
Che altro posso dir?
Gira come che gira
le lancete de l’orooio.
Eco, vivare male
el to tenpo, xe vivare
male el tenpo passà.
E ricorda:
el sole cresse in avanti.
Bisogna (voce di mia mamma)
È la cessazione di ogni cosa,
lo comprendo, il punto
dal quale non è
facile prendere le distanze.
Lo sai bene anche tu:
più una cosa si fa dura,
più bisogna farsela amica.
Che altro posso dire?
Ruota come ruotano
le lancette dell’orologio.
Ecco, vivere male il tempo
presente, è vivere male
il passato. E ricorda:
il sole cresce in avanti.
Lo stesso motivo
Me ciapo anca mi de le pause.
A òlte esserghe xe proprio ’na fadiga.
No’ stago co’ le man in man
tuto el tenpo. Anzhi, zherco
calcossa no’ necessariamente
a la me portata o che po ’l
tornarme utile. Parché lo fasso?
Forse par lo stesso motivo
pa’l cua’e te parlo, pa’l cua’e te scrivo.
Ghe xe robe che no’ me tornarà
mai utii, ma che no’ xe manco
inportanti de tute le altre: robe
che bisogna smezhare cofà on baston.
La stessa ragione
Anch’io mi prendo delle pause.
A volte esserci è davvero faticoso.
Non ozio tutto il tempo. Anzi,
cerco qualcosa non necessariamente
alla mia portata
o che mi può tornare utile.
Perché lo faccio? Forse
per la stessa ragione
per cui ti parlo, per cui ti scrivo.
Ci sono cose che non mi torneranno
mai utili, ma che non sono
meno importanti di tutte le altre:
cose che bisogna
spezzare come un bastone.
La spina
Scrivare par cossà?
Ancuò scalarte xe difizhie.
Lo xe senpre.
Ma ancuò de pì.
Ancuò scrivo pa no’ pensare,
parché el tenpo trascora,
par schissare fóra,
in pressia pì che se po’l,
la spina,
el sangue ingrumà.
La spina
Scrivere per che cosa?
Oggi scalarti è difficile.
Lo è sempre.
Ma oggi di più.
Oggi scrivo per non pensare,
perché il tempo trascorra,
perché spremi fuori,
in fretta più che si può,
la spina,
il sangue aggrumato.
Lo sbrego e i busi
Prima che fusse a le prese co lo sbrego
e i busi, chi gero mi
e ti chi gerito? Me pare de no’ saverlo
pì. Me pare che sia pa’ cuesto
se adesso lo spassio no’ xe pì
cue’o ch’el gera prima, cofà se tuto
fusse ridoto a ’na tela ’ndove no’ se vede
che lo sbrego e i busi. Sì, mama,
che xe sempre calcossa d’inzherto,
d’indicibie che no’ s’intende mai,
calcossa del cua’e no’ so trovare parole
capassi de cusire l’aria strassià,
el dano. Eco, forse lo sbrego
e i busi ghe gera anca prima,
cô gero cofà ’na lanpada oscurà
e tegnevo par mi tuto el so ciaro.
Il taglio e i buchi
Prima che fossi alle prese con il taglio
e i buchi, chi ero io e chi eri tu?
Mi sembra di non saperlo più.
Mi sembra che sia per questo
se adesso lo spazio non è più
come era prima, come se si fosse
ridotto a una tela in cui non si scorge
che il taglio e i buchi. Sì, mamma,
c’è sempre qualcosa d’incerto,
d’indicibile che non s’intende mai,
qualcosa di cui non so trovare parole
per ricucire l’aria lacerata, il danno.
Ecco, forse il taglio e i buchi
c’erano anche prima, quand’ero
come una lampada oscurata
e tenevo per me tutto il suo chiarore.
L’AUTORE
Renzo Favaron è nato nel 1958, vive e lavora a San Bonifacio (Vr). Nel 1991 pubblica in dialetto veneto Presenze e conparse, con una prefazione di Attilio Lolini. Del 2001 è il romanzo breve Dai molti vuoti. Nel 2003 pubblica Testamento, un’altra raccolta di poesie in dialetto, nel 2006 Di un tramonto a occidente e nel 2007 Al limite del paese fertile (postfazione di Alberto Bertoni). Il racconto La spalla è del 2005. Del 2009 è In cualche preghiera (postafazione di Giancarlo Consonni). Segue nel 2011 Un de tri tri de un (nota introduttiva di Giovanni Tesio). Del 2012 è Ieri cofa ancuò (nostos par passadoman) e, nel 2014, è il racconto breve Esordi invernali. Segue Balada incivie, tartufi e arlechini, Diario de mi e de la me luna, Piccolo canzoniere più bugiardo che vero e il racconto lungo Né ago né filo. Collabora con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa.