Poesie ritrovate: Giovanna Bemporad | L’Altrove
Nel panorama poetico italiano, la figura di Giovanna Bemporad appare quasi come mitica e anomala.
Nata a Ferrara il 16 novembre 1928, figlia di un importante avvocato e di religione ebraica, studia a Bologna al liceo Galvani ed è allieva di Camillo Sbarbaro.
A scuola è considerata un prodigio, padroneggia perfettamente le lingue classiche e a tredici anni traduce L’Eneide. Elio Pagliarani, suo caro amico dirà: “Mi declamava versi sulla spiaggia preferibilmente di notte, e a me tredicenne lei quindicenne pareva proprio una Pizia, un’autentica sacerdotessa di Apollo“.
Durante la persecuzione fascista è a Casarsa con Pier Paolo Pasolini, di cui è giovane amica. È in questo periodo che Giovanna Bemporad intraprende maggiormente il suo lavoro di traduttrice e scrittrice. Scrive più poesie al giorno e Pasolini la pubblica sulla rivista della CGL Il Setaccio con lo pseudonimo Giovanna Bembo; sempre lo scrittore le chiede di insegnare inglese e greco ai bambini che a causa del conflitto non possono frequentare le scuole. Viene però catturata dai nazisti e imprigionata fino alla fine del conflitto. Si ritrova poi a Venezia a patire la fame e a dormire sui marciapiedi. A tirarla fuori da questo stato è direttore de Il Gazzettino, che gli procura una stanza. È lì, a lume di candela, che Giovanna scrive con una passione immensa le poesie che faranno parte del suo primo libro.
Esordisce quindi a soli vent’anni, nel 1948, con la raccolta Esercizi, che contiene anche sue traduzioni delle opere di Omero, Saffo e altri. Il libro verrà poi ripubblicato dalla casa editrice Garzanti nel 1980 con nuove aggiunte e una nota di Giacinto Spagnoletti.
Nel 1992 con Le Lettere di Firenze pubblica un’edizione definitiva della sua traduzione a l’Odissea, con la quale vince il Premio Nazionale per la Traduzione letteraria istituito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
La Bemporad dedicò la sua esistenza alla traduzione di opere altrui a discapito, forse, della sua attività poetica. “Da ragazza prodigio mi sono trasformata volontariamente in una poetessa ‘postuma’ e mi sono camuffata sotto la corazza delle traduzioni dei classici.” dichiarava.
Ed è proprio così, spesso venne accusata di non fare poesia politica, impensabile in quegli anni lì. Ma la scrittrice aveva in mente solo la poesia come atto di sopravvivenza, una poesia che non può essere uccisa. Per questo i classici si mescolavano ai suoi versi, mirando al perfezionismo della forma, della parola, ad un mai accontentarsi. Alla traduzione del poema omerico dedicò tutta la sua vita e non riesce nemmeno a completarlo come vorrebbe, nonostante le pubblicazioni.
Una poesia, quella di Giovanna Bemporad, obiettiva, a tratti maniacale, con testi spinti verso temi leopardiani come la precarietà dell’esistenza, come in:
Mia compagna implacabile la morte
persuade a lunghe veglie taciturne.
Ma non so che inquietudine febbrile
fa ingombro a questo dolce accoglimento
calando il sole, prima che ogni gesto
si traduca in memoria e che ogni voce
s’impigli nel silenzio. Forse il vento
porta come un rammarico del tempo
che non è più, trascina per le strade
deserte una fiumana d’ombre care.
E biancheggia un’immagine tra i gigli
di giovane assopita nel suo riso.
e continuando in:
Non farmi così sola come il vento
che si dispera in questa notte fonda
fino a morirne, eternamente sola
non farmi, come già sono da viva,
sotto la volta immensa ch’è misura
del nostro nulla. In punto di lasciare
questa mia fragile vicenda, tutte
le mie dolci abitudini, e la gioia
che spesso segue all’urto del dolore,
voglio adagiarmi su una zolla d’erba
nell’inerzia, supina. E avrò più cara
la morte se in un attimo, decisa,
piano verrà, toccandomi una spalla.
Ma il suo essere riservato, chiuso, dedito allo studio, “viveva in una casa dai soffitti alti in una stanza dai libri a terra. Pile di testi greci e latini”, collideva con la sua natura eccentrica, con il suo modo di vestire da ragazza punk, anticipando i tempi, già negli anni quaranta e cinquanta. Così l’amico Pasolini la descriveva in una lettera a Serra, datata 26 gennaio 1944: “Ho passato con lei molti bei giorni poetici, e fatto belle discussioni, ma in compenso in quanti pasticci mi ha messo qui in paese”. E in una lettera a lei indirizzata scrive: “Quando canterai la Settima silenziosamente, senza insultare gli altri declamandola ad alta voce?”.
Sì, la Bemporad aveva quasi un’avversione verso i poeti contemporanei, sebbene conoscesse Cristina Campo e Giuseppe Ungaretti, che fu il suo testimone di nozze. Era attratta soltanto dall’opera di Leopardi, considerato da lei come “l’ultimo dei greci”. Ma in questa sua stravaganza è impossibile non notare la sua rigidità, il suo rispetto, la sua venerazione verso la poesia. Giovanna Bemporad è una vestale, una sacerdotessa custode del fuoco sacro della parola, del logos, del poiéin, del fare, del creare poesia.
Fu per questo motivo che tese sempre verso la perfezione, quella che mai realizzò. Una ricerca tormentata, disperata che si trasformava nella scrittura e riscrittura, in lavoro e lavorìo, in quella sua poesia in endecasillabo impeccabile, perché non esisteva verso, metrica al di fuori di quella.
Il metro per eccellenza, il marchio di fabbrica della classicità, che nella sua natura vive di rivoluzioni, che anche la Bemporad attuò e alle quale aderì cantando in una bellezza illimitata, vitale, unica.
L’anima mia che ha tristezze d’aurora
e di tramonto, e il gusto della morte,
non più tenuta viva da illusioni
piange sommessa al clamoroso mare
come un fanciullo triste, abbandonato
senza difesa a tutti i suoi terrori.
Ma quando il sole un riso di rubini
mi semina tra i solchi della fronte,
spiegano i sogni un volo di gabbiani!
Persa in un mondo di gocce d’azzurro
e di freschezza verde, annego in questo
mare più dolce dell’oblio l’angoscia
cupa degli anni tardi, in cui presento,
rammaricando, che il mio tempo è morto.
È forse un gioco
di venti nella polvere di un prato
senza confini, l’ansietà dei vivi…
E al nome della giovinezza io sento
stringersi il cuore come ad una fiamma
che si risolve in cenere.
Se appoggio alla conchiglia del tuo cuore
l’orecchio e l’eco di ogni mio pensiero
vi ascolto, spicca l’anima il suo volo
verso la gioia come un bianco uccello;
se un demone mi invoglia alle carezze,
tu supina ti stendi su una stuoia
ma sormonti le spighe e non abbassi
le ali ai pensieri appollaiati in alto:
tu sei come per le infime radici
degli alberi il sussurro delle cime.