“Il libro della follia” di Anne Sexton. Intervista a Rosaria Lo Russo | L’Altrove
My poems only come when I have almost lost the ability to utter a word. To speak, in a way, of the unspeakable. To make an object out of the chaos….To say what? a final cry into the void.
Poetessa sui generis, bellissima, oscena, irrequieta e fragile, potremmo definirla così Anne Grey Harvey Sexton, una delle più importanti scrittrici statunitensi. Che sia riuscita, nella sua opera, a dire l’indicibile è vero.
La poesia di Anne Sexton rivela la sua personalità, è confessionale e scandalosa. Di quella poesia che entra nelle ossa e che si vorrebbe indagare sempre meglio.
La stessa Anne che da ragazzina non era portata per nessuna materia e che frequentò un istituto professionale e che alla poesia si avvicinò inizialmente guardando un programma televisivo e poi dopo il secondo tentativo di suicidio. Lo psicanalista le suggerì di scrivere e lei lo fece.
«Il mio analista mi disse di scrivere tra le nostre sessioni su ciò che provavo, pensavo e sognavo».
Nel 1957 seguì un workshop di poesia curato da Robert Lowell durante il quale conobbe Sylvia Plath e Maxime Kumine, che fu per lei come una sorella.
La Sexton scrisse moltissimo per quasi un anno, iniziò a inviare i suoi testi alle riviste, alle case editrici finché, nel 1960, venne pubblicato To Bedlam and Part Way Back.
Il libro attirò subito l’attenzione per quella natura così intensamente auto-rivelatrice e personale e spietatamente onesta delle poesie che conteneva, dai toni sardonici, ma allo stesso tempo rivelavano una poetessa sensibile e vulnerabile. Il suo secondo libro di poesie, All My Pretty Ones del ’62, continuò sulla scia di un’intransigente esplorazione della propria anima. Del 1966 è, invece, Live or Die, che le valse il Premio Pulitzer l’anno successivo.
«Quando Anne Sexton è al massimo della sua forma, scrive una poesia che nessun altro avrebbe potuto scrivere» affermò Erica Jong.
In un’America del secondo Novecento, legata ad una letteratura sicuramente meno provocatoria, la persona di Anne Sexton spiccava moltissimo. Era una donna affascinante, in costante ricerca di novità amorose, una figura, oseremmo dire, rock, in tacchi a spillo calcava i palchi con la sua Her Kind Band e si presentava spesso in ritardo e ubriaca agli spettacoli. Eppure era applaudita e venerata come una dea.
La sua scrittura esplorava quei malesseri che la gente viveva: le relazioni, maternità, la religione, il femminicidio, la morte con una forza insistente e attrattiva unica.
Tematiche, queste, ancora maggiormente espresse in The book of folly del 1972. È la raccolta che consacra il suo stile e la poetica della scrittrice giunge alla completa maturità.
La spietata acutezza della Sexton si ritrova nei suoi versi, ma anche in tre racconti: Ballare la giga, Il balletto del buffone e Cala le ciocche.
Il libro è suddiviso in quattro parti Thirty Poems (Trenta poesie), la serie Angels of the Love Affair (Angeli degli affari di cuore) contenente sei poesie, Three Stories (Tre storie) e The Jesus Papers (Le Carte di Gesù). Anche qui la Sexton esplora senza sosta quei temi che la ossessionarono: l’amore, la perdita, la follia, il rapporto padre-figlia e la morte. La Morte dei padri, ad esempio, in Trenta Poesie è la sezione più sorprendente e coinvolgente ed è visibile come la poetessa ricerchi una figura paterna da amare e di cui fidarsi. Ne Le Carte di Gesù, viene presentato, invece, un dio più umananizzato e modernizzato rispetto alle precedenti poesie a lui dedicate; figure, quelle religiose, che ritroveremo nelle successive raccolte tracciate in maniera sempre più forte.
Per la prima volta è possibile leggere l’edizione integrale del libro in italiano, grazie al lavoro di Rosario Lo Russo.
La Lo Russo è poetessa e traduttrice storica di Anne Sexton, prima de Il libro della follia, disponibile dal 27 maggio e pubblicato dalla Casa Editrice La Nave di Teseo, ha pubblicato con Le Lettere Poesie d’amore e Poesie su Dio e con Crocetti Editore L’estrosa abbondanza.
Abbiamo avuto il piacere di parlare con Rosaria Lo Russo e condividiamo con voi la nostra intervista.
Anzitutto la ringraziamo. Com’è avvenuto l’incontro con la poesia di Anne Sexton?
In una libreria di Oklahoma City, mille porte fa, quando ero sposata con Tom. È stato Thomas Kirk – da allora sempre mio compagno di traduzione – a farmi notare una antologia che stava sfogliando, dicendo: questa potrebbe piacerti. In quel periodo dovevo curare un numero della rivista di poesia comparata “Semicerchio” sul tema della ricerca del padre. L’antologia era “Selected Poems” di Anne Sexton, e gli occhi mi caddero sulla serie “Morte dei padri”. La prima poesia di Anne Sexton che ho letto e anche la prima che ho tradotto fa parte di quella serie, “How we danced”, si intitola, “Come ballavamo”. La lettura di quel testo mi tenne sveglia tutta la notte, fu letteralmente uno shock, anzi un’agnizione. Il giorno dopo decisi che mi sarei dedicata alla traduzione delle sue poesie in italiano, proprio a partire da quella serie, che fa parte de “Il libro della follia”, appena uscito con La Nave di Teseo. Ventisette anni fa.
Cosa la colpisce di più della figura della poetessa?
La capacità straordinaria di tenere insieme ironia e strazio, facendo del suo stile letterario una postura performativa estetica e esistenziale, con ciò scavalcando e annullando la falsa dicotomia fra finzione e realtà, fra letteratura e teatro, fra vita vissuta e vite immaginarie, in un’affabulazione che è questione di vita o di morte, l’unica che garantisca, che ci piaccia o meno, del valore di un poeta o di una poeta, almeno nel secolo scorso, figlio, in questo, del secolo precedente.
Quali sono, se ci sono, le difficoltà che incontra nel tradurre?
Tradurre qualsiasi testo di poesia è difficilissimo, perché richiede una adesione radicale al linguaggio altrui, sin nei minimi particolari, sin nelle virgole. Nel caso della poesia di Anne Sexton, il cui linguaggio coincide con la dramatis persona che lo pronuncia in versi, tradurre significa prestare il proprio linguaggio ad una immedesimazione totale.
È anche traduttrice, tra gli altri, di Sylvia Plath. Si è mai soffermata sul rapporto che ha legato le due scrittrici?
Ho studiato lungamente i rapporti letterari fra le due autrici, e fra la loro scrittura in versi e quella di Amelia Rosselli. I saggi che ho dedicato a questi argomenti si possono leggere in “Figlia di solo padre”, Seri Editore, Macerata, 2020.
Prossima traduzione? “A Self-Portrait in letters”?
Chissà. Certo continuo a tradurre la scrittura di Anne, ma quale sarà l’esito editoriale al momento non so.
Tra le tante che ha tradotto, c’è una poesia che porta sempre con sé?
“For My Lover Returning to His Wife”, “Al mio amante che torna da sua moglie”. È in “Love Poems, Poesie d’amore”, che ho curato per la casa editrice Le Lettere, nel 1996, e che ha avuto una seconda edizione, riveduta e corretta, nel 2019.
Per gentile concessione da parte della casa editrice, pubblichiamo di seguito due poesie da Il libro della follia:
Anna che era matta
Anna che era matta,
ho un coltello sotto l’ascella.
Quando sto sulle punte trasmetto messaggi.
Sono una specie di virus?
Sono stata io
a farti ammattire?
Sono stata io
a farti andare in acido?
Sono stata io
a dirti di arrampicarti e sporgerti dalla finestra?
Perdona. Perdona.
Dimmi che non sono stata io.
Dimmi che no.
Dimmelo.
Parlotta le avemmarie sul nostro cuscino.
Prendimi in collo allampanata dodicenne
e sommergimi di coccole.
Sussurra come un ranuncolo.
Mangiami. Trangugiami come un budino.
Mettimi dentro.
Prendimi.
Prendi.
Dammi ragguagli sulle condizioni della mia anima.
Fammi un resoconto completo delle mie azioni.
Carica un prete a molla e fammelo ascoltare.
Mettimi sulle staffe del ginecologo e fai entrare un gruppo di turisti.
Metti i miei peccati nella lista della spesa e fammeli comprare.
Sono stata io
a farti ammattire?
Sono stata io
a farti fischiare una sirena negli auricolari?
Sono stata io
a aprire la porta allo psichiatra mustacchiuto
che ti ha trascinato fuori a viva forza come una golf car?
Sono stata io
a farti ammattire?
Dalla tua sepoltura, Anna, scrivimi!
Non sei altro che ceneri ma, purnondimeno,
impugna la Parker che ti regalai!
E scrivimi.
Scrivi.
Angelo della speranza e dei calendari,
che mi dici dell’angoscia, quella buca
in cui mi rintano con la scatola di Kleenex?
In quella buca è legata alla sedia la donna di fuoco
in quella buca storcono il collo uomini di cuoio,
laggiù il mare si muta in una pozza di piscia.
Lì non ci si lava né si mettono pesci.
In questa buca tua madre strilla tutto il giorno,
tuo padre le scava la fossa e mangia dolci da forno.
Il tuo bambino si strozza, la tua bocca è argillosa.
Hai occhi di vetro. Si rompono. Non sei coraggiosa.
Sei sola come un cane al canile. Sulle mani uno sfogo
di bolle. Le braccia tagliate, legate con uno spago
di fil di ferro. Lì la tua voce suona estranea, esterna.
Lì non si muta. Lì non si prega.