Borges sul problema della traduzione della poesia | L’Altrove
Per amor di chiarezza, qui mi limiterò al problema della traduzione della poesia. Un problema minore, ma di spicco. La discussione dovrebbe spianarci la strada verso il tema della musica della parola (o forse della magia della parola), del senso e del suono in poesia.
Secondo un’idea molto diffusa, ogni traduzione tradisce il suo impareggiabile originale. Un’idea espressa nel ben noto gioco di parole italiano «traduttore traditore», cui si ritiene non ci sia soluzione. Poiché questo gioco di parole è molto noto, deve racchiudere un seme, un nucleo di verità, nascosto da qualche parte.
Addentriamoci nella discussione sulla possibilità (o sull’impossibilità) e sul successo (o sul fallimento) della traduzione della poesia. Secondo la mia abitudine, cominceremo con alcuni esempi, perché non credo si possa condurre una discussione senza esempi. Dal momento che la mia memoria è talvolta simile all’oblio, dovrei scegliere esempi brevi. Analizzare intere strofe o poesie, andrebbe oltre il tempo a nostra disposizione e oltre le mie capacità.
Cominceremo con l’ode di Brunanburh e la traduzione che ne ha fatto Tennyson. Quest’ode (le mie date sono sempre un po’ approssimative) fu composta agli inizi del X secolo per celebrare la vittoria degli abitanti del Wessex contro i vichinghi di Dublino, gli scozzesi e i gallesi.
Esaminiamone un verso o due. Nell’originale, c’è un pezzo che recita più o meno così: «Sunne up àt morgentid mare tungol». Il che significa «the sun at morning-tide» («il sole alla marea dell’alba»), e poi «màre tungol», «that famous star» («quella stella famosa») o «that mighty star» («quella stella potente»), ma qui famous sarebbe la traduzione migliore. Il poeta prosegue parlando del sole come di «godes candel beorth», «a bright candel of God» («una luminosa candela di Dio»).
Quest’ode era stata resa in prosa inglese dal figlio di Tennyson e pubblicata in una rivista. Probabilmente il figlio spiegò al padre alcune regole fondamentali della versificazione in inglese antico, per esempio il ritmo, l’uso dell’allitterazione al posto della rima e così via. Allora Tennyson, che amava molto gli esperimenti, si cimentò a trascrivere il verso inglese antico in inglese moderno. opportuno sottolineare che, sebbene l’esperimento fosse piuttosto riuscito, non vi riprovò più. Così, se cerchiamo il verso inglese antico negli scritti di Lord Alfred Tennyson, dovremo accontentarci di quell’esempio degno di nota: l’ode di Brunanburh.
Quei due frammenti – «the sun, that famous star» («il sole, quella famosa stella») e «the sun, the bright candle of God» («godes candle beorth»; «il sole, la luminosa candela di Dio») – vennero tradotti da Tennyson [p. 61] come: «When first the great/ Sun-star of morning-tide» («Quando il sole-stella della marea dell’alba»).
Ora, io penso che «sun-star of morning tide» sia una traduzione straordinaria. ancora più sassone dell’originale, visto che ci sono due parole germaniche composte: «sun-star» e «morning-tide». E, sebbene «morning-tide» possa essere facilmente spiegato come «morning-time» («al momento dell’alba»), possiamo anche pensare che Tennyson volesse suggerirci l’immagine dell’alba che inonda il cielo.
Sicché il risultato è una frase molto strana: «When first the great/ Sun-star of morning-tide». Poi, un verso più sotto, quando Tennyson arriva a «bright candle of God», traduce «Lamp of the Lord God» («Lampada di Dio Signore»).
Adesso, facciamo un altro esempio, una traduzione non solo irreprensibile, ma anche molto bella. Questa volta prenderemo in considerazione una traduzione dallo spagnolo. la stupenda poesia Noche oscura del alma (Notte oscura dell’anima), scritta nel XVI secolo da uno dei più grandi – potremmo tranquillamente dire il più grande – fra i poeti spagnoli, fra tutti coloro che hanno usato la lingua spagnola a fini poetici. Naturalmente, sto parlando di san Giovanni della Croce. La prima strofa recita:
En una noche oscura
con ansias en amores inflamada
!o dichosa ventura! salì sin ser notada
estando ya mi casa sosegada.
«In una notte oscura/ fra mille ansie, d’amor tutta infiammata/ oh, felice ventura!/ Uscii né fui notata/ Essendo la mia casa addormentata.» una strofa meravigliosa. Ma, se prendiamo l’ultimo verso estrapolato dal contesto e considerato da solo (diciamolo pure, non siamo autorizzati a farlo), è una frase mediocre: «Estando ya mi casa sosegada». C’è il suono alquanto sibilante delle tre «s» in «casa sosegada». E sosegada non si può dire sia una parola eccezionale. Non sto cercando di sminuire il testo. Sto solo facendo notare (e tra poco capirete anche perché) come la frase presa in se stessa, tolta al suo contesto, sia del tutto irrilevante.
Questa poesia venne tradotta in inglese da Arthur Symons alla fine del XIX secolo. La traduzione non è buona, ma, se vi venisse voglia di cercarla, la trovereste nell’Oxford Book of Modern Verse di Yeats. Qualche anno fa, un grande poeta scozzese – che è pure sudafricano – , Roy Campbell, tentò una traduzione di Noche oscura del alma. Vorrei avere con me il testo, ma ci limiteremo alla frase che ho appena citato – «estando ya mi casa sosegada» – e vedremo che cosa ne ha fatto Roy Campbell. L’ha tradotta così: «When all the house was hushed». Qui c’è la parola all (tutta), che dà un senso di spazio, un senso di ampiezza, alla frase. E poi, c’è la bella, la deliziosa parola inglese hushed (messa a tacere). Hushed sembra offrirci in qualche modo l’autentica musica del silenzio. A questi due esempi estremamente utili dell’arte di tradurre, ne aggiungerò un terzo.
Ma non ne discuterò, perché non si tratta di un verso reso con un altro verso, bensì di prosa portata a rango di verso, di poesia. C’è quella popolare massima latina (presa dal greco, ovviamente), «Ars longa, vita brevis» o – come immagino si dovrebbe pronunciarla – «uita breuis». (Il che è davvero brutto. Torniamo a «vita brevis», a «Virgilio» e non «Uirgilius».) Qui c’è una semplice affermazione, l’affermazione di un parere. cosa facile, semplice. Non tocca alcuna corda profonda. Di fatto, è una specie di profezia del telegramma e della letteratura che ne è derivata.
«L’arte è lunga, la vita è breve.» Questa massima è stata ripetuta tantissime volte.
Poi, nel XIX secolo, «un grand translateur», il maestro Geoffrey Chaucer, utilizzò quella frase. Naturalmente, lui non pensava alla medicina; avrà pensato alla poesia. Ma forse (non ho il testo con me, quindi possiamo scegliere) pensava all’amore e voleva lavorare su quella frase. Scrisse: «The life so short, the craft so long to learn» («La vita così breve, l’arte così lunga da imparare») o – come potrete supporre che Chaucer la pronunciasse –
«The lyf so short, the craft so long to lerne». Qui c’è non solo l’affermazione, ma anche l’autentica musica della pensosità (o del desiderio, della malinconia). Si può con chiarezza vedere come il poeta non stia solo pensando all’arte difficile e alla vita breve, ma come lo senta davvero. Il che è dato dall’apparentemente invisibile, impercettibile parola chiave so (così): «The lyf so short, the craft so long to lerne».
Torniamo ai primi due esempi: la famosa Battle of Brnnanburh e Tennyson, e la Noche oscura del alma di san Giovanni della Croce. Se consideriamo le due traduzioni citate, non sono inferiori all’originale, eppure sentiamo che c’è una differenza. La differenza è al di là [p. 64] delle capacità del traduttore; dipende, piuttosto, dal modo in cui leggiamo la poesia. Se rileggiamo l’ode di Brunanburh, ci rendiamo conto che è nata da una profonda emozione.
Sappiamo che i sassoni erano stati sconfìtti più volte dai danesi, e che non ne tolleravano l’idea. Dobbiamo pensare alla gioia provata dai sassoni occidentali quando, dopo una lunga giornata di battaglia -la battaglia di Brunanburh, una delle più grandi battaglie della storia medievale inglese -, sconfissero Olaf, il re dei vichinghi di Dublino e gli odiati gallesi e scozzesi. Pensiamo a quello che provarono; pensiamo all’uomo che scrisse l’ode. Forse era un monaco. Comunque sia, invece di ringraziare Dio (alla maniera ortodossa), rese grazie per la vittoria alla spada del suo re e alla spada del principe Edmund. Non dice che Dio accordò loro la vittoria; dice che vinsero «swordda edgiou», «con la punta della loro spada». Tutta l’ode è percorsa da una fiera e incontenibile gioia. Il poeta si prende gioco di coloro che sono stati sconfitti. felice che siano stati sconfitti. Parla al re e a suo fratello che fanno ritorno al loro Wessex, alla loro West-Saxonland, come traduce Tennyson («each went to his own West-Saxonland, glad of the war», «ognuno tornò al proprio Wessex, soddisfatto della guerra»). Dopodiché, torna molto indietro nella storia inglese; pensa agli uomini arrivati dallo Jutland, a Hengist e a Horsa.
Il che è molto strano: immagino che pochi uomini avessero un tale senso della storia nel Medioevo. Così, dobbiamo pensare all’ode come al frutto di una profonda emozione. Dobbiamo pensarla come uno sfogo di grande poesia.
Se passiamo alla versione di Tennyson, per quanto la si possa ammirare (io l’ho letta prima di conoscere l’originale sassone), la riterremo un riuscito esperimento di poesia in inglese antico scritta da un maestro della poesia inglese moderna. Insomma, il contesto è diverso. Naturalmente, la colpa non è del traduttore.
La stessa cosa accade nel caso di san Giovanni della Croce e di Roy Campbell: si può anche pensare (immagino sia permesso farlo) che «when all the house was hushed» sia verbalmente (da un punto di vista squisitamente letterario) superiore a «estando ya mi casa sosegada». Ma questo non ha alcuna rilevanza nel giudizio che possiamo esprimere sui due brani: l’originale spagnolo e la versione inglese. Nel primo caso, pensiamo che san Giovanni della Croce abbia raggiunto la più alta esperienza di cui l’anima umana è capace: l’esperienza dell’estasi, la fusione di un’anima umana con l’anima della divinità, con l’anima di Dio.
Dopo aver vissuto quell’esperienza indicibile, il poeta l’ha comunicata attraverso una metafora. Poi si è sentito pronto a redigere il «cantico dei cantici», ha preso – molti mistici l’hanno fatto – l’immagine dell’amore sessuale quale immagine dell’unione mistica tra l’uomo e il suo dio, e ha scritto la poesia.
Così, noi possiamo sentire – origliare, dovremmo dire, come nel caso del sassone – le vere parole da lui pronunciate.
Adesso veniamo alla traduzione di Roy Campbell. buona, ma ci viene da pensare: «In fin dei conti, lo scozzese ha fatto un lavoro più che dignitoso». Il che, naturalmente, è diverso. Ossia, la differenza fra la traduzione e l’originale non è una differenza fra i testi in sé. Immagino che, se non sapessimo qual è l’originale e quale la traduzione, potremmo giudicarli [p. 66] in modo equo. Ma, per sfortuna, non possiamo farlo. E, così, si suppone che il lavoro del traduttore sia sempre inferiore o, ancora peggio, che tale lavoro venga percepito come inferiore, anche se, verbalmente, la resa è buona quanto l’originale.
Passiamo a un altro problema: il problema della traduzione letterale. Quando parlo di traduzione «letterale», uso il termine in senso lato, perché, se una traduzione non può ricalcare l’originale parola per parola, lo può ancora di meno lettera per lettera. Nel XIX secolo, uno sconosciuto studioso di greco, Francis William Newman, tentò una traduzione letterale di Omero in esametri. Intendeva pubblicare una traduzione «contro» quella di Pope. Usò frasi quali «wet waves» («onde bagnate»), «wine-dark sea» («mare nero come il vino») e così via. Matthew Arnold aveva le sue teorie sulla traduzione di Omero. Quando uscì il libro del signor Newman, Arnold lo recensì. Newman gli rispose; Arnold gli rispose a sua volta. Si può leggere questa discussione molto vivace e molto intelligente nei saggi di Arnold.
Entrambi avevano molto da dire in merito alle due tesi opposte. Newman pensava che la traduzione letterale fosse la più fedele. Matthew Arnold ribatté con una teoria su Omero. Diceva che in Omero si potevano trovare molti pregi: chiarezza, nobiltà, semplicità e così via. Riteneva che un traduttore dovesse sempre comunicare tali pregi, anche quando il testo non li manifestava apertamente. Matthew Arnold faceva notare che una traduzione letterale comunicava estraneità e spigolosità.
Per esempio, nelle lingue romanze non diciamo «It is cold», bensì «It makes cold»: «Il fait froid», «Fa freddo», «Hace frìo» e così via. Però, non credo che si dovrebbe tradurre «Il fait froid» con «It makes cold». Un altro esempio: in inglese si dice «Good morning» e in spagnolo «Buenos dias» («Good days»). Se «Good morning» venisse tradotto con «Buena manana», sembrerebbe una traduzione letterale, ma non una traduzione esatta.
Matthew Arnold faceva notare che, in un testo tradotto letteralmente, si creavano false enfasi. Non so se si imbatté mai nella traduzione delle Mille e una notte del capitano Burton; o forse gli accadde troppo tardi. Infatti, Burton traduce Quitab alif laila wa laila con Book of the Thousand Nights and a Night, invece che con Book of the Thousand Nights and One Night. Quest’ultima forma è una traduzione letterale. Riproduce l’arabo parola per parola. Tuttavia, non è fedele nel senso che «book of the thousand nights and a night» («libro delle mille notti e una notte») è una forma comune in arabo, mentre in inglese desta sorpresa. Il che, naturalmente, non era voluto nell’originale.
Matthew Arnold consigliò al traduttore di Omero di tenere una Bibbia a portata di mano. Disse che la Bibbia in inglese poteva essere una specie di modello per la traduzione di Omero. Però, se Matthew Arnold avesse consultato attentamente la sua Bibbia, si sarebbe accorto che quella inglese è piena di traduzioni letterali, e che parte della bellezza della Bibbia inglese consiste proprio in tali traduzioni letterali.
Per esempio c’è «a tower of strenght» («una torre di forza»).
Questa è la frase che si ritiene sia stata tradotta da Lutero: «Ein feste Burg», «una solida roccaforte». C’è pure «the song of songs». Ho letto in fra’ Luis de León che gli ebrei non avevano superlativi, sicché non potevano dire «il più grande dei canti» o «il canto migliore». Dissero «il cantico dei cantici», così come avrebbero potuto dire «il re dei re» per «l’imperatore» o «il più alto re»; oppure «la luna delle lune» per «la luna più alta»; oppure «la notte delle notti» per «la più sacra delle notti». Se confrontiamo la traduzione inglese del «cantico dei cantici» al tedesco di Lutero, ci accorgiamo che Lutero, il quale non si curava della bellezza e voleva semplicemente che i tedeschi capissero il testo, lo tradusse con «das hohe Lied», che equivale a «l’alto canto». Si vede così come i due esempi che ho riportato di traduzioni letterali tendano alla bellezza.
Si può dire che le traduzioni letterali non trasmettono solo – come faceva notare Matthew Arnold – estraneità e spigolosità, ma anche stranezza e bellezza. Questo, io credo, lo proviamo tutti, perché, se esaminiamo una versione letterale di una poesia molto antica, ci aspettiamo qualcosa di strano. Se non lo troviamo, ci sentiamo un po’ delusi.
Adesso, veniamo a una delle più belle e più famose traduzioni inglesi. Naturalmente, sto parlando della traduzione di Fitzgerald del Rubàiyàt di Omar Khayyàm. La prima strofa recita così:
Awake! For morning in the bowl of night
Has flung the stone that puts the stars to flight;
And, lo! The hunter of the East has caught
The Sultan’s turret in a daze of light. (12)
[«Destati! Perché il mattino ha lanciato la pietra/ Che mette in fuga gli uccelli sotto la volta della notte;/ Ed ecco! Il cacciatore dell’Est ha catturato/ La torretta del sultano in un’ebbrezza di luce.»]
Come sappiamo, il libro venne scoperto in una libreria da Swinburne e Rossetti. Entrambi ne rimasero folgorati. Non sapevano assolutamente nulla di Edward Fitzgerald, uno sconosciuto letterato. Costui si era cimentato nella traduzione di Calderón e di Farid al-Din Attar. E poi ci fu questo libro famoso, ormai divenuto un classico.
Rossetti e Swinburne si resero conto della bellezza della traduzione, ma viene da domandarsi se avrebbero notato la stessa bellezza qualora Fitzgerald avesse presentato il Rubàiyàt come un testo originale (in parte lo era), invece che come una traduzione. Avrebbero pensato che Fitzgerald aveva il diritto di dire: «Awake! For morning in the bowl of night/ Has flung the stone that puts the stars to flight»? (Il secondo verso ci rinvia a una nota a piè di pagina, la quale spiega che «to fling a stone into a bowl» è il segnale di partenza della carovana.) Inoltre, mi domando se a Fitzgerald sarebbe stato concesso il «daze of light» e la «Sultan’s turret» in una sua poesia.
Ma credo che a noi basti soffermarci su un solo verso, un verso che si trova in un’altra strofa:
Dreaming when dawn’s left hand was in the sky
I heard a voice within the tavern cry,
«Awake my little ones, and fill the cup
Before life’s liquor in its cup be dry».
[«Sognando mentre la mano sinistra dell’alba era nel cielo/ Udii gridare una voce nella taverna/ “Svegliatevi miei piccoli, e riempite la coppa/ Prima che nella coppa il liquore della vita si prosciughi”.»]
Soffermiamoci sul primo verso: «Dreaming when dawn’s left hand was in the sky» («Sognando mentre la mano sinistra dell’alba era nel cielo»). Ovviamente, la parola chiave di questo verso è left (sinistro). Se fosse stato usato qualunque altro aggettivo, il verso non avrebbe avuto senso. Ma «left hand» ci fa pensare a qualcosa di singolare, di sinistro. Sappiamo che la mano destra è associata a right (retto), in altre parole con righteousmess (rettitudine), con direct (diritto) e così via, mentre qui c’è l’infausto termine left.
Ricordiamo la frase spagnola «lanzada de modo izquierdo que atraviese el corazón» («lanciata da sinistra a trafiggere il cuore»), che racchiude l’idea di qualcosa di sinistro. Sentiamo che c’è qualcosa di sottilmente sbagliato in «dawn’s left hand». Se il persiano stava sognando quando la mano sinistra dell’alba era nel cielo, il suo sogno poteva diventare un incubo da un momento all’altro. E di questo siamo più o meno consapevoli; non ci soffermiamo necessariamente sulla parola left. la parola left a fare la differenza, a tal punto l’arte poetica è misteriosa e sottile. Accettiamo «Dreaming when dawn’s left hand was in the sky», perché immaginiamo che vi sia dietro un originale persiano. Per quanto ne so, Omar Khayyàm non dà ragione a Fitzgerald. Il che ci porta a una questione interessante: una traduzione letterale ha creato bellezza.
L’origine delle traduzioni letterali mi ha sempre stimolato a pensare. Attualmente, le traduzioni letterali ci piacciono; non a caso, molti di noi accettano solo le traduzioni letterali, perché si vuole dare a ogni uomo quello che gli è dovuto. Il che sarebbe sembrato un delitto agli occhi dei traduttori dei secoli passati. Costoro pensavano a qualcosa di molto più elevato. Volevano dimostrare che il volgare era capace di grande poesia quanto l’originale. Immagino che don Juan de Jàuregui, quando tradusse Lucano in spagnolo, la vedesse così. Non credo che qualche contemporaneo di Pope pensasse a Omero e a Pope.
Immagino che i lettori, i migliori lettori almeno, pensassero alla poesia in se stessa. Erano interessati all’Iliade e all’Odissea, e non a inezie verbali. Per tutto il Medioevo, la gente vedeva la traduzione non in termini di resa letterale, ma di ri-creazione; il traduttore come qualcuno che, dopo aver letto un’opera, la sviluppasse a modo suo, con le sue forze, a partire dalle potenzialità fino ad allora conosciute nella sua lingua.
Come avranno avuto inizio le traduzioni letterali? Non credo che siano derivate da una teoria, né che siano derivate dalla scrupolosità. Penso che abbiano avuto un’origine teologica. Sebbene la gente considerasse Omero il più grande dei poeti, sapeva comunque che Omero era umano («quandoque bonus dormitat Homerus», «se ogni tanto Omero sonnecchia» e così via) (13) e che, quindi, si poteva dare nuova forma alle sue parole.
Ma, quando fu il momento di tradurre la Bibbia, la cosa era completamente diversa, perché si presumeva che la Bibbia fosse stata scritta dallo Spirito Santo. Se pensiamo allo Spirito Santo, all’infinita intelligenza di Dio che intraprende un’impresa letteraria, non ci è concesso di immaginare alcun elemento casuale – né incidentale – nel suo lavoro. No, se Dio scrive un libro, se Dio si concede alla letteratura, ogni parola, ogni lettera – come hanno detto i cabalisti – deve essere stata ponderata. E può essere ritenuto blasfemo immischiarsi nel testo scritto da un’infinita, eterna intelligenza.
Penso che l’idea di una traduzione letterale provenga dalle traduzioni della Bibbia. solo una mia supposizione – immagino ci siano molti studiosi, qui, che possono correggermi -, ma credo che sia altamente probabile. Quando vennero intraprese traduzioni molto accurate della Bibbia, gli uomini cominciarono a scoprire, a sentire che c’era bellezza in altri modi di espressione. Oggi siamo tutti sostenitori delle traduzioni letterali, perché la traduzione letterale ci dà sempre quei piccoli brividi di sorpresa che ci aspettiamo. A rigore, si potrebbe dire che non c’è bisogno di originali. Forse arriverà il momento in cui la traduzione sarà considerata in se stessa. Pensiamo ai Sonnets from the Portuguese (Sonetti dal portoghese) di Elizabeth Barrett Browning.
Una volta ho tentato una metafora audace, ma, visto che nessuno l’accettava in quanto veniva da me – io sono soltanto un contemporaneo -, l’ho attribuita a un remoto persiano o norvegese. Allora i miei amici hanno detto che era piuttosto bella; e naturalmente non ho mai rivelato loro che era mia, perché la metafora mi piaceva. In fin dei conti, i persiani o i norvegesi possono aver inventato quella metafora, come pure altre migliori.
Così, torniamo a quello che ho detto all’inizio: una traduzione non viene mai giudicata parola per parola. Dovrebbe essere giudicata verbalmente, ma non accade mai.
Tratto da L’invenzione della poesia, Jorge Luis Borges, Mondadori.