Giovani Poeti

Giovani Poeti: Eleuterio Tosco | L’Altrove

Oggi ospitiamo un nuovo giovane poeta: Eleuterio Tosco. Uno pseudonimo importante e particolare come lo è la sua produzione in versi.

Non vogliamo svelarvi altro, anzi desideriamo che sia lo stesso poeta a farsi conoscere. Per questo motivo gli abbiamo fatto alcune domande ed ecco come ci ha risposto:

Quando hai capito di amare la poesia?

La genesi è sempre ardua da scalare: non ricordo. Forse non l’ho nemmeno mai amata: è lei che ha sedotto me con la possibilità di fuggire dal Reale, osservarlo da lontano e trasfigurarlo costruendo fiabe solo per poi vederle annaspare. Io non ho mai ricambiato quest’affetto, davvero: non perché la poesia sia condanna, dato che non vivo nella dimensione dell’estremo; più che altro perché mi rendo conto di quanto io non riesca a provare amore per qualcosa che non mi appartiene, per qualcosa che non mi entra dentro, ma che mi sfiora e subito viene violentata dal mio essere, senza mai lasciarsi domare totalmente. Non so: nel mio narcisismo ho bisogno di possedere l’oggetto, perché non mi basta desiderarlo. E non esiste Amore in una relazione impari, disfunzionale.

“A cosa serve il poeta, / in tempo di povertà?” scrisse Hölderlin. Nella società odierna, povera di valori importanti, a cosa serve il poeta, secondo te?

Non ho mai amato le categorie universali: i valori vengono modificati dal tempo, dalle prospettive storiche e dalle visioni personali. Non credo in epoche senza valori, bensì in epoche che si allontanano da ciò che è passato e non può essere riadattato al presente: questo sì. Ciò che un tempo era disvalore oggi potrebbe essere un valore se sottostiamo alla visione d’un singolo che soggettiva l’oggettivo. Precisato questo, amo il termine “servire”, perché il poeta ha una funzione strumentale: è un mezzo che deve spalancare una prospettiva, una visione, che deve portare a riflettere anche e soprattutto sul quotidiano, perché non v’è nulla di banale nel banale. Il poeta non è inutile: nessun padre, anche se abiurato e apostatato fino all’eccesso, potrebbe mai esserlo.

E ti sei mai chiesto a cosa serve la tua poesia?

Temo questa domanda, ma bisogna sempre andare incontro a ciò che si teme: la verità è più alta della paura e la paura non è nulla una volta che si spalanca la porta dell’Oltre. In realtà, mi sto ancora studiando: devo ancora capire se posso essere funzionale a qualcosa e a qualcuno. Per il momento, mi reputo portatore di un’estetica volta alla catabasi: voglio che la mia poesia sia scavo non tanto nell’Io, bensì nell’Altro-da-sé; voglio che la mia poesia sia uno sguardo dall’esterno, estrospezione, lacerazione del limite. Non so.

Infine, a chi ti ispiri?

Attualmente, con ritardo, sto scoprendo le Letterature classiche. In compenso, avendo frequentato un liceo linguistico, sono entrato in contatto con realtà diverse: l’analogia di Thomas, la violenza corrosiva di Ginsberg, la destrutturazione del senso di Borroughs; ma anche l’eleganza di Flaubert, il conflitto linguistico in Zola, il dolore di Sarah Kane. Mi sto ancora cercando.

Di seguito le sue poesie:

Voglio vedere il visibile agli occhi di Dio

I

Delle gite nell’utero rimangono
segreti da sbrogliare e nebbia sciolta
sulla lingua. Ancora oggi non comprendo
perché debba cercarmi sempre in volti
che non conosco, perché mi abbandoni
quando declamo gemiti tra cosce
lastricate di peli, o perché viva
lontano dalla genesi. Ma forse
il principio non è cieco, e io devo
imparare a scavare.

II

Se scavo, scorgo un ingorgo di vene:
cosa v’è più profondo del sangue? Oggi
un’alba incuneata nel cielo mi scrive:
biascichi eccessi e non vedi nessuno
oltre a te stesso. Ma il vero è una guerra
in cui vincono le ossa sfilacciate
dal tempo e le barbe empie di ricordi
non le craniate date per difesa.

III

Che cosa temi?
Che il lettore intenda
il verso sradicato dal roveto
di parole incomprese e poi rinchiuse
nelle cantine del grembo: il linguaggio
è una frattura e l’epistéme vede
solo se stessa: sono Arte suicida.

E, crollato il Parnaso, cosa resta?
Se la facondia gremita di boria
implode, cosa impietrisce del verso?

La bellezza è il principio.
La bellezza
è crollata e rimane solo il vuoto
della retorica da spalancare.

Quindi?
Quindi richiudilo, e poi taci.

IV

Le parole? Fratture: sempre fuggo
da ciò che sono rovesciando il senso.
Nella scrittura vedo l’avulsione
dall’Io, che sconosce il trascendente
ma niente scorge fuori da se stesso:
voglio vedere il visibile agli occhi
del Dio in cui non credo.

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