Riscoprire i poeti

Carteggio tra Gozzano ed Amalia Guglielminetti | L’Altrove

Agliè – Il Meleto (23) ottobre 1907

Cara Amica,

Ed eccomi a Voi: con quanto refrigerio non potete immaginare!
Quest’oggi ho atteso a corrispondenze gravose: Dino Mantovani, fra queste. Mi sono attenuto ai vostri consigli: gli ho inviati i Colloqui (manoscritto: non avevo altro) e una copia della 3a edizione; e ho accompagnato l’invio con due righe molto concise e molto ossequiose: facendo anche il vostro nome dacché me ne avevate dato il permesso.
Rieccomi in questa solitudine e di nuovo tutt’altro che bene in salute. Il malessere che lamentavo quel giorno e che mi faceva la parola quasi difficile e la connessione del pensiero quasi gravosa, non mi ha lasciato ancora.
Mi sento nelle ossa un languore, e nel cervello una nebulosità sentimentale che mi umiliano, sinceramente!
Mia cara buona Amica, vorrei essere ancora nel vostro salotto e avere, per medicina, le vostre mani nelle mie mani e restarmene così, senza dir niente, guardandovi: «gioco di sguardi è cosa tanto vaga…». Voi sapete guardare molto bene: tanto che, dei nostri convegni, mi restano più impressi i silenzi, quasi, che le parole. Ed è naturale: fra noi due è quasi impossibile dire a voce cose
serie e profonde: tanto io che Voi abbiamo l’animo troppo corroso dall’ironia, per sostenere seriamente un lungo discorso posato. Per questo – e anche per la mia accasciatezza fisica – il nostro ultimo colloquio è stato piuttosto vano, fatto di frivolezze e di maldicenze frequenti, come un comune convegno di persone comuni. E noi non siamo persone comuni!

Mai come quando sono accanto a Voi, sento la mia anima diversa e lontana dalla «mandra pasciuta di vento»
che forma il meglio della nostra società. Voi siete per me un elemento animatore, per eccellenza. Peccato che
non siate uomo! Ci saremmo dati subito del tu, vivremmo insieme quasi di continuo, attraversando la città liberamente, a braccetto o con la mano l’uno sulla spalla dell’altro… La nostra fraternità, amica mia, ha invece molti ostacoli, per quanto voi vi siate generosamente adoperata a debellare le convenienze…
La vostra bellezza! La temevo molto! Quel giorno, al Meleto, ne rimasi annichilito: la giudicai una terribile
nemica alla serietà della nostra amicizia. Ancora l’altro giorno cercavo di demolirla, a furia di analisi e di sofismi, ma in vano!
Voi eravate seduta accanto a me fra i cortinaggi della finestra, sotto uno sprazzo di luce violentissima: in condizioni poco propizie e molto rivelatrici: io indagavo i minimi particolari del vostro volto con lo zelo di un’amica malevola: ma dovevo convenire che la luce violenta non
vi nuoceva per nulla! È male! Le donne d’un fascino spirituale come Voi non hanno il diritto di essere belle. Sovente, quando parlate, io dimentico e non seguo le vostre parole, per il gioco attirante delle vostre labbra sane o per la carezza lenta delle
vostre ciglia sulle vostre gote…
E questo è male.
Ma mi avvezzerò, sento che mi avvezzerò: e sento che non vi farò la corte, come per qualche tempo ho temuto. Come siete stata buona e dolce con me, l’altro giorno! Di tutto il nostro colloquio – quattro ore – una cosa mi sono portata via più cara di tutte: quel lungo silenzio che abbiamo avuto, in piedi, avvicinandosi il commiato, con le mani intrecciate nelle mani; mi sono smarrito anche un poco, ricordate? Grazie, e grazie anche dell’effigie vostra (ammiratissima) unico conforto d’un ricordo che «più mi segue quanto più mi manca».
Grazie alle vostre sorelle, la piccola e la grande, così buone e docili a comparire e scomparire, come automi leggiadri. Grazie ancora dei guanti.
E basta! No! Non basta! Vi prego (ma ricordatevene bene) se visiterete ancora il V.P.S.le indagate diplomaticamente quale impressione può avergli fatto l’atto che Voi mi consigliaste.

Le migliori cose e addio.

GOZZANO

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