La poesia di Fabrizio De André | L’Altrove
Fabrizio De André fu (e forse lo è tuttora) il più grande cantautore italiano di tutti i tempi.
A vent’anni di distanza dalla sua morte, le sue canzoni e la sua personalità influenzano ancora oggi il mondo della musica e della letteratura.
La biografia di De André ci parla di un bambino nato a Genova nel 1940 figlio di borghesi industriali, di un ragazzo che via via si mostrò ribelle alla vita che avevano delineato per lui e di un uomo con un amore grande verso la musica a cui si dedicò fino alla morte, avvenuta l’11 gennaio 1999.
Di Faber ci colpiscono l’intelligenza e sensibilità che traspaiono anche dalle sue canzoni. Leggendo i testi delle sue opere non possiamo non notare alcuni temi fondamentali della sua poetica.
Fabrizio De André fu il poeta degli ultimi, degli emarginati e degli esclusi. La sua attenzione verso gli “scarti della società” è viva e quasi maniacale. La realtà di quegli anni viene descritta in maniera così sferzante, che solo Pasolini – tra i poeti – sembra assomigliargli. È per questo particolare interesse che egli verrà visto come un anarchico. Non si tratta di anarchia nel vero senso del termine, De André si dichiarò più volte lontano dal voler fare politica, ma di un tipo di anarchia che si proponeva a farsi andare bene anche certi aspetti della società, senza nessun progetto rivoluzionario.
Di rivoluzioni, De André, ne parla abbastanza e identifica Gesù come l’unico fenomeno rivoluzionario della storia. Ma in tutte le sue canzoni-poesie il Cristo non viene mai descritto come il Dio sceso in terra, ma come un uomo come tanti altri, con le sue debolezze e fragilità. È la pietà di De André che si fa spazio tra le tante canzonette dell’epoca. È la poesia del vero, del reale.
Si chiamava Gesù
Venuto da molto lontano
a convertire bestie e gente
non si può dire non sia servito a niente
perché prese la terra per mano
vestito di sabbia e di bianco
alcuni lo dissero santo
per altri ebbe meno virtù
si faceva chiamare Gesù
Non intendo cantare la gloria
nè invocare la grazia o il perdono
di chi penso non fu altri che un uomo
come Dio passato alla Storia
ma inumano è pur sempre l’amore
di chi rantola senza rancore
perdonando con l’ultima voce
chi lo uccise tra le braccia di una croce
E per quelli che l’ebbero odiato
nel Getzemani pianse l’addio
come per chi lo adorò come Dio
che gli disse sii sempre lodato
per chi gli portò in dono alla fine
una lacrima o una treccia di spine
accettando ad estremo saluto
la preghiera l’insulto e lo sputo
E morì come tutti si muore
come tutti cambiando colore
non si può dire che sia servito a molto
perché il male dalla terra non fu tolto
ebbe forse un po’ troppe virtù
ebbe un volto ed un nome Gesù
di Maria dicono fosse il figlio
sulla croce sbiancò come un giglio
Ma la parola non rimane parola e basta, così come la canzone. In ogni opera di De André emerge sempre una morale. Spesso questa si presenta con sarcasmo e quasi come una presa in giro dei poteri forti (carabinieri, preti ecc.), ma, come il suo senso anarchico, anche il suo modo di fare morale fa rientrare il tutto nei soliti schemi.
Tra i temi non può di certo mancare l’amore. De André si innamorava spesso e di tutto. Ma l’amore nelle sue canzoni si presenta come sfortunato e perduto, non destinato a durare. Amore che vieni, amore che vai ne è l’esempio più eclatante ed è da considerarsi poesia a tutti gli effetti.
Ricordi sbocciavan le viole
con le nostre parole d’amore
Non ci lasceremo mai, mai e poi mai,
vorrei dirti ora le stesse cose
ma come fan presto, amore, ad appassire le rose
così per noi
l’amore che strappa i capelli è perduto ormai,
non resta che qualche svogliata carezza
e un po’ di tenerezza.
Da La canzone dell’amore perduto
Venuto dal sole o da spiagge gelate
perduto in novembre o col vento d’estate
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai.
Da Amore che vieni, amore che vai
Ma Fabrizio De André non fu soltanto scrittore arguto, ma anche lettore appassionato. Nelle sue canzoni si trovano spesso riferimenti a opere, poesie e scrittori. La guerra di Piero, ad esempio, prende spunto dal sonetto di Arthur Rimbaud, Le dormeur du val. La Ballata degli impiccati riscrive la Ballade des pendus del poeta quattrocentesco François Villon. Non al denaro, non all’amore né al cielo, invece, è il concept album ispirato ad alcune poesie tratte dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Una personalità eccezionale, un cantore di vite, un poeta che ancora, dopo vent’anni, continua a parlarci.
Mario Luzi lo descrisse così:
Fabrizio De André è uno chansonnier, e lo è nel senso più vero: il senso in cui la poesia, il testo letterario e la musica convivono necessariamente.