Intervista a Chandra Livia Candiani | L'Altrove
Tra gli ospiti di Poesia Festival ( qui il programma) quest’anno c’è anche la poetessa Chandra Livia Candiani.
Nata a Milano nel 1952, Chandra Livia è traduttrice di testi buddhisti e tiene corsi di meditazione. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia e da anni tiene corsi di poesia presso alcune scuole elementari di Milano: da questa esperienza è nata l’antologia, curata da lei e Andrea Cirolla, Ma dove sono le parole? (Effigie 2015) che raccoglie poesie scritte dai bambini.
Da Io con un vestito leggero (Campanotto, 2005) a Fatti vivo (Einaudi, 2017), il lavoro poetico della Candiani non si è mai esaurito. La sua produzione attraversa quasi un ventennio e diventa di volta in volta più profonda e precisa.
Le poesie di Chandra sono in grado di evocare in noi sensazioni ed immagini che forse tenevamo nascoste da tempo? Nel suo raccontare, la poetessa mette in risalto sempre l’Io di fronte al Mondo. E proprio in Fatti vivo, l’ultima sua raccolta, ritroviamo tutto questo, la rinascita, il farsi vivi da vivi, tematiche che nei primi libri sono solo accennate, ma che attendevano di risuonare potenti.
Abbiamo fatto alcune domande alla poetessa, la quale ci ha gentilmente risposto in questo modo:
Anzitutto la ringraziamo. Com’è cambiata la poesia di Chandra Livia Candiani dagli inizi ad oggi?
È cambiata insieme agli anni, alle esperienze, alle morti, alle letture, agli incontri. Probabilmente non sta a me dirlo. Io solo seguo con onestà gli inviti alla voce della poesia, io ascolto. Spesso mi soffermo e so dove sono grazie ai versi che scrivo. Forse nel corso del tempo c’è nella mia vita e dunque nella mia poesia più senso dell’altro, più specularità e dunque maggiore risonanza e compassione. Forse ora la mia storia sta mostrando un disegno e dunque è più facile caricarmela sulle spalle, ma non più come una facchina con un bagaglio, piuttosto come un uccello con le sue ali.
Quanto ha inciso la poesia di Marina Cvetaeva nella sua poetica?
Marina è stata una maestra di sangue, di educazione sentimentale per dare forma alla passione. Il sangue russo ha bisogno di essere domato ma anche interrogato, non soffocato ma nemmeno lasciato infuriare. Marina è disciplina. Ora di Marina amo le prose, i suoi scritti di poetica, la sua cadenza di pensiero, la sobrietà della riflessione più che l’impeto dei versi. Mi ha dato tanto. Mi ha dato il coraggio di essere, il coraggio del tragico. Il senso del tragico è il senso delle sproporzioni e dunque dell’umorismo, sa essere leggero e intenso insieme, senza dover scegliere tra verità e grazia. In Marina Cvetaeva la trasfigurazione della personale vicenda umana è un’arte esistenziale e poetica smisurata.
Qual è il suo rapporto con i Classici?
Non so cosa si intenda con ‘Classici’. Ho un rapporto con gli autori, a qualsiasi epoca o stile appartengano. Scelgo gli autori che sono chiamati da una ricerca, non da un tempo o da uno stile, autori che cercano il senso, soprattutto se non lo trovano e lasciano solo tracce, indizi, domande. Non mi basta la bella scrittura e non leggo la brutta. Cerco la forma che è dettata dalla forza di un pensiero o di un sentire, da un’indifferibilità. Cerco quello che mi fa sobbalzare e non mi chiede di capire ma di ritrovarmi in un altro luogo. Insieme. È classico? È sperimentale? Non lo so.
Cosa prova quando scrive? A chi sente di rivolgersi?
Quando scrivo sono nella mia funzione, nel compito che mi ha fatto nascere, quindi sono a casa. Non penso a chi mi rivolgo, sono rivolta all’ascolto, a qualcosa che mi supera e mi precede. Sono in un’ umiltà senza soggetto.
Quanto il Buddismo ha influenzato ed influenza la sua produzione in versi?
Come tutto il resto. Tutto influenza la poesia e ogni angolo della mia vita è raggiunto dalla mia pratica nel Buddhismo, dal mio cercare di spogliarmi dai concetti già concepiti e viaggiare tastando limiti e avventurandomi nel non limitato. Cado e mi rialzo. Mi ricordo di essere viva e di respirare. Devo il mio tentativo di vivere alla pratica del Buddhismo, ma non scrivo versi buddhisti, scrivo quello che arriva, scrivo scoprendo e non raccontando cosa so già.
Oltre la poesia, che rapporto ha con altri tipi di Arte? E cos’è, per lei, l’Arte?
È la lingua di chi non si ritrova nei limiti angusti della ragione. È pensiero vivo, è visione e tocco. Tutta l’arte, la musica, la danza, la pittura, la scultura, il teatro, il cinema mi danno da mangiare, sfamano un desiderio doloroso di altro, di trasparenza, di legittima follia. L’arte è un sapere che non passa dal buon senso e io ne sono da sempre affamata.
L’Arte è apertura allo sconosciuto, all’invisibile.
Citando un suo verso, “pesa reggere leggerezza”?
Sì, pesa. L’ho capito frequentando il dolore di chi mi stava vicino. Pesa vedere qualcuno che svanisce facilmente, che regge poco, che si spezza troppo spesso. Ma pesa anche essere leggeri, fare costantemente voto di non pesare, di restare sottili per sempre. Un peso che vale la pena di portare, anzi di lanciare in aria e poi seguire. Come diceva Viktor Sklovskij “il precetto di essere leggeri”.