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“Vita e morte di un poeta”: un’intervista a Nicola Bultrini sulla poetica di Beppe Salvia | L’Altrove

Nicola Bultrini, con il suo libro Vita e morte di un poeta, edito da Fazi Editorea marzo di quest’anno, ci offre non solo un ritratto intimo e struggente di Beppe Salvia, ma anche una finestra sulla fervente scena culturale romana degli anni Ottanta. Questo lavoro non è semplicemente una biografia; si presenta come un’affascinante riflessione sulla natura della poesia, sulla tensione tra vita e arte, e sulla complessa personalità di un poeta segnato da tormenti interiori e straordinarie capacità espressive.

Bultrini si avvale di fonti di prima mano e testimonianze dirette per costruire una narrazione che, pur mantenendo rigore e autenticità, trasmette un forte coinvolgimento emotivo. Il risultato è un’opera che fonde frammenti di ricordi in un affresco corale, evocativo e pulsante. La Roma di quegli anni emerge come un crocevia di fermento intellettuale, in cui giovani artisti e poeti cercano una propria voce in riviste come Braci, festival letterari e serate di scambio intellettuale.

Questa dimensione collettiva si intreccia con l’individualità di Salvia, la cui figura appare intrisa di una dualità affascinante: da un lato, una mente brillante, dedita alla ricerca di una purezza espressiva; dall’altro, un uomo vulnerabile, sempre “sul punto di andare via,”, come sottolineato dal materiale di supporto. Gli episodi descritti, come i suoi gesti eccentrici e i momenti di alienazione, incarnano una lotta continua tra il desiderio di appartenenza e l’inevitabile attrazione verso la solitudine.
Il rapporto di Salvia con la poesia va oltre la mera produzione artistica; essa diviene uno strumento di esistenza, una maniera per dar voce a un’anima in tumulto. I suoi versi, spesso intrisi di una lucidità disarmante, riflettono la tensione tra l’urgenza di vivere e l’ombra della morte. Come evidenziato dall’articolo fornito, Salvia concepisce la poesia come un dono che non può essere sprecato, un mezzo per rivelare “il vero”, anche nei momenti più bui.

Particolarmente emblematici sono i suoi esperimenti linguistici, come il grammelot di “versi solo fonetici”, che dimostrano una padronanza innovativa e quasi dissacrante del mezzo poetico. Questi esperimenti, pur allontanandosi dalla tradizione, rimangono profondamente radicati nella ricerca di un’autenticità espressiva che sfida ogni convenzione.
La tragica fine di Salvia lascia un segno indelebile nel panorama culturale italiano. Come osservato da Bultrini, il poeta non solo sfiora, ma spesso si avventura oltre i limiti della vita quotidiana, testando confini emotivi e fisici. Questa sfida continua alla normalità, unita a una creatività fuori dal comune, lo consacra come una figura unica e irripetibile.

L’opera di Bultrini, così accuratamente assemblata, funge da memoria viva, un omaggio a un poeta che, seppur segnato da fragilità, ha saputo trasformare il suo tormento in una ricchezza artistica senza pari. Vita e morte di un poeta non è solo un tributo a Beppe Salvia, ma anche un invito a riflettere sul ruolo dell’arte nella comprensione dell’esperienza umana.

Attraverso una prosa sobria e incisiva, Nicola Bultrini riesce a riconnettere frammenti di memoria e poesia, portando alla luce l’eredità complessa e affascinante di Beppe Salvia. Il libro si inserisce nella tradizione delle biografie letterarie che non si limitano a narrare una vita, ma che illuminano l’universo artistico e umano di un’epoca.

Per l’occasione abbiamo incontrato l’autore e gli abbiamo posto alcune domande. Ecco la nostra intervista.

Grazie ancora per la disponibilità. Nel libro, il titolo “Vita e morte di un poeta” sembra evocare un confronto universale tra la dimensione umana e quella artistica. Cosa rappresentano per lei “vita” e “morte” nella figura di Beppe Salvia?

Io non credo che Salvia fosse attratto dall’idea della morte. Il suo amore per la vita era tradotto nella sua inesauribile curiosità. Tuttavia, nella ricerca di un equilibrio, e nella incapacità di raggiungerlo e mantenerlo, era sempre proteso verso un limite, sempre pronto a sfidarlo. Questo sbilanciamento gli derivava anche dal porsi, come artista, mai in un’ottica univoca e sempre alla ricerca, sempre pronto a tentare qualcosa di nuovo. E infatti era attratto da cose che all’inizio degli anni ’80 erano assolutamente all’avanguardia, le graphic novel, il cyberpunk, la stessa informatica. Tutto quello che era dinamico nell’esistenza lo attirava. E lui si avventurava verso il nuovo come un esploratore mai stanco. In ambito artistico questo non poteva che essere una risorsa. Nella vita quotidiana invece poteva diventare un punto critico di grande vulnerabilità.

La complessità psicologica di Salvia è centrale nel suo racconto: quanto è stato difficile trattare con rispetto e profondità temi come il disagio interiore e l’autodistruttività senza cadere nella retorica?

Io non volevo assolutamente psicanalizzare la figura di Salvia, men che meno volevo esprimere un giudizio. A dire il vero non volevo neanche offrire un punto di vista, che sarebbe stato del tutto personale, parziale e facilmente fallace. Perciò, mi sono dato la regola di attenermi esclusivamente ai fatti, per come mi venivano raccontati e per come, se necessario, io li avevo verificati. Le persone che hanno conosciuto Salvia mi hanno descritto comportamenti e avvenimenti; ecco, mi sono limitato a riportarli, ovviamente contestualizzandoli e inserendoli in una più ampia descrizione della figura. Alla fine, credo, questo aspetto del personaggio risulta credibile, proprio perché descritto in maniera fattuale e assolutamente antiretorica.

Quali sono i criteri attraverso cui ha scelto di rappresentare Beppe Salvia: c’è stato un intento più biografico, critico o simbolico nel suo racconto?

Le fonti di questo libro sono prima di tutto le 31 interviste che ho fatto a coloro che avevano conosciuto e frequentato Salvia. Con questo materiale intendevo soltanto raccontare la sua biografia. Quindi, questo non è un libro di critica letteraria. La storia che racconto è assolutamente vera. Non ho né inventato né interpretato. Va da sé che l’aspetto simbolico è intrinseco nella vicenda stessa, ma non l’ho attribuito io; semmai mi sono limitato a rilevarlo. Mi sono dedicato a ricomporre un mosaico di ricordi ed è stato molto difficile. Perché alla fine delle interviste avevo una montagna di frammenti di memoria in ordine sparso. È stato un po’ come ricomporre un puzzle con tantissime tessere, simili ma confuse. Raccontare di Salvia mi ha consentito di raccontare anche una stagione (primi anni ’80) molto fertile e interessante nel panorama artistico e letterario. Una stagione da cui son venuti fuori i grandi Maestri di oggi e che a me sta molto a cuore. Ma l’aspetto biografico è sempre stato il principale interesse. Naturalmente, raccontando di quando erano stati scritti alcuni testi, l’aspetto critico diventa un riflesso della contestualizzazione della scrittura.

Beppe Salvia appare come un poeta non allineato, quasi fuori dal tempo. Come descriverebbe la relazione tra Salvia e il contesto storico e culturale degli anni Ottanta?

Come dicevo, da un lato Salvia era attratto dal nuovo, ed era affascinato da qualsiasi tipo di “contaminazione” innovativa. Gli interessava la sperimentazione ma come esperienza inedita, non come esercizio intellettualistico. L’inizio degli anni ’80 è un periodo di grandi cambiamenti; tantissimi furono quindi gli spunti nuovi, affascinanti e stimolanti per un ragazzo sensibile e dotato come il giovane Salvia. Tuttavia, lui non si gettava a corpo morto sulla novità del momento. C’era sempre un atteggiamento riflessivo, che nasceva dal suo legame alla tradizione. La tradizione (ad esempio nelle forme, come il sonetto) che poteva essere innovata, ma non rinnegata; poteva essere trasgredita a patto di averla prima metabolizzata. E poi, ci teneva moltissimo a non essere incasellato in un genere soltanto. Per fare un esempio della sua disinvoltura: gli piaceva Elvis Costello, i Roxy Music, ma anche il jazz di Miles Davis e anche il pop commerciale di “Kid Creole and the coconuts”.

Quali elementi della visione artistica di Salvia risuonano particolarmente con la sua sensibilità poetica?

Innanzitutto, proprio la curiosità e il muoversi con disinvoltura tra generi diversi. Credo che questa “multidisciplinarietà” sia una chiave artistica moderna e di grande stimolo e interesse. Naturalmente, va gestita. La “contaminazione” tra generi deve avere una struttura interna solida e riconoscibile. Sennò si fa solo confusione in maniera pretestuosa. Salvia quando si “calava” in un genere, era assolutamente assorbito in quella dimensione. Portava dentro il suo essere poeta, ma non diventava un poeta-critico o un poeta-narratore. Era solo critico o solo narratore. La commistione era sottotraccia, mai invadente. E poi della scrittura di Salvia mi interessa molto quel suo cantare la vita nelle sue contraddizioni, nelle sue meravigliose imperfezioni e incongruenze (e lo si vede bene soprattutto negli ultimi testi).

Ha percepito un interesse crescente per figure poetiche “marginali” come Salvia nella recente editoria, oppure questo rimane un ambito di nicchia?

Da un lato oggi si recuperano figure di artisti o letterati “marginali”, nel senso anche di non “organici”. E questo è un bene ed è anche giusto. Perché spesso queste figure sono rimaste periferiche anche per un colpevole disinteresse del cosiddetto mainstream letterario. Oggi finalmente non sono più i grandi editori a dettare le regole del marcato (se esiste un “mercato” di poesia). I piccoli e medi editori hanno maggiore spazio di manovra e sono fisiologicamente costretti a fare scelte consapevoli di qualità. Ecco che viene trovato nuovo spazio per autori fino a poco tempo fa trascurati. Quindi va bene che da un lato ci sia questo rinnovato interesse. Tuttavia, dall’altro, ho notato un diffuso interesse specificamente per gli artisti o gli scrittori tragici o suicidi. Come se questo aspetto della loro vita potesse costituire una sorta di “canone”. Ecco, questa cosa non mi convince. Non solo perché il suicidio è un mistero imperscrutabile. Nessuno sa o potrà mai sapere cosa accade in quell’istante ultimo e fatale. Il rischio è di farne un clichè. E poi, penso che la vita di un artista debba essere valutata nell’insieme. Certamente l’esito tragico pesa tantissimo e connota in buona parte il percorso, ma non può stare come uno stigma per una più vasta vicenda.

A distanza di decenni, qual è secondo lei il messaggio più urgente che Salvia offre ai nuovi lettori?

Non credo che Salvia intendesse lasciare messaggi. Credo che abbia scritto delle poesie importanti, nate già come classici e che meritano oggi di essere lette e conosciute. Poi credo che la sua storia personale, inserita nel contesto e nella storia degli amici che erano con lui, abbia un valore storico letterario assolutamente da recuperare. Infine, credo che la sua vicenda privata e individuale abbia, pur tragicamente, un valore simbolico molto forte. Tutti noi nella vita siamo perennemente in bilico e quindi tentiamo un equilibrio, e cosa accade se non riusciamo a raggiungerlo? Ecco, per un poeta questa condizione diventa lacerante, la sua vita stessa diventa banco di prova di questa condizione che appartiene a tutti e che caratterizza ogni nostro istante di vita.

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