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“La rivoluzione palestinese del 7 ottobre”: intervista a Filippo Kalomenìdis | L’Altrove

Torna in libreria con un libro straordinario, Filippo Kalomenìdis. La rivoluzione palestinese del 7 ottobre, pubblicato da PGreco Edizioni (Acquistalo qui), affronta in maniera decisa e chiara, quella che è stata, come si evince dal titolo, la rivoluzione del popolo palestinese avvenuta il 7 ottobre 2023. Più che una raccolta, questo libro è un coro di voci unanime, concorde, un coro di resistenza, grande, potente, energico e vivo. Kalomenìdis scuote gli animi glaciali dell’Occidente, quello che tace e fa tacere. Percuote con le sue parole, racconta le verità, narra vicende messe in silenzio e dà voce a quanti non possono più farlo perché martiri, uccisi crudelmente dai misfatti israeliani. Ad accompagnare riflessioni, poesie, lettere, anche le commoventi illustrazioni di Abu Manu.
Non ci siamo fatti sfuggire l’occasione di parlare meglio con l’autore, facendogli una lunga intervista.

Grazie mille per questa possibilità, Filippo. Torni con un libro ambizioso, un saggio poetico-storico-politico come tu stesso l’hai definito. Ci racconteresti la sua nascita da un punto di vista squisitamente esistenziale?

Alla fine di questa primavera, come scrivo nel libro, sono tormentato dalle «domande della solitudine più aspra. Quella che si prova in mezzo alla ressa dei compagni in lotta».
È un periodo di profonda e rabbiosa crisi, rischiarato soltanto dalla stesura di un’articolata opera poetica sui palestinesi che si battono nella Shatat (la diaspora, la dispersione) e sui rivoluzionari dell’Asse della Resistenza.
Un viaggio di scrittura che nel settembre successivo mi condurrà in Libano, a Beirut, nei campi dei profughi palestinesi, a Shatila. Dove incontrerò le donne e gli uomini nuovi delle comunità della fede, della sovversione del presente, della solidarietà immensa e dell’altissimo vivere.
Ma torniamo al maggio del 2024.
Sono sconcertato dall’incapacità della porzione italiana del Movimento per la liberazione della Palestina di de-occidentalizzarsi, uscire da concezioni staliniste o umanitariste, sempre e comunque islamofobe; dal culto della falsa pace assassina; e dalla viltà dei civili contestatori democratici, ossequiosa delle leggi repressive.
Sono avvilito dall’isolamento sociale, comunicativo del Movimento, dall’esiguo livello di conflittualità, dalla rinuncia ad aumentare la forza dell’urto fisico-politico contro l’oppressione liberale. Mende insanabili di fronte a un genocidio conclamato e alla prima rivoluzione che nel nuovo secolo fa tremare il sistema nordoccidentale, capitalistico, coloniale.
Non mi consola l’agire cristallino, generoso ma spesso confuso di una minoranza di giovanissimi. È troppo poco in un Paese livido, costruito sulla follia omicida di massa, sulla razionalizzazione integrale dell’esistenza divenuta pazzia distruttiva, in una nazione che ha la menzogna come mito fondativo. Un circo neofascista, sionista, razzista, arabofobo di assassini consapevoli o inconsapevoli, d’imbonitori che comandano ferini o protestano per mestiere, di falsari della storia ufficiale, di rassegnati schiavi volontari.
Parlo col compagno e fratello ateniese Leonidas Vlassis del taccuino dove annoto le mie percezioni, le mie visioni a margine dell’opera sulla Shatat e dell’impegno di militante. Gli confido quanto la bellezza guerriera dei palestinesi e degli immigrati arabi resti inascoltata, incompresa nelle mobilitazioni italiane per Gaza.
Leonidas pensa che abbia tra le mani una salva di razzi Qassam di poesia e amore eretico che sconvolgerà il movimento e l’opinione pubblica.
Così mi propone di raccogliere i miei scritti editi e inediti su un anno di Rivoluzione Palestinese e di evidente collasso del totalitarismo liberista per pubblicarli in Grecia con Προλεταριακή Πρωτοβουλία-Iniziativa Proletaria, e di prendere contatto con Manolo Morlacchi per individuare un editore in Italia ossia PGreco. Ed eccoci qui.

E le tue motivazioni dal punto di vista letterario?

Anche in questo libro, la mia scrittura ha operato sul τραῦμα, sulla ferita non rimarginabile con l’intento di renderla miracolo – θαῦμα – e costringere chiunque l’accolga a mettersi in discussione rispetto al proprio non agire oppure agire con modalità insufficienti, per incrinare l’orrore del nostro tempo, insanguinato dal genocidio sionista dei palestinesi e, da settembre, dallo sterminio dei libanesi.
Faccio emergere una polifonia letteraria: dai versi al diario della «storia bruciante»; dal dialogo pubblico, evocativo e tagliente (che sostituisce quello teatrale dei libri precedenti) alle lettere d’amore rivoluzionario per i prigionieri politici palestinesi e per due donne combattenti; dalle favole teosofiche fino alla commistione della prosa poetica.

Ma la sperimentazione più ardita è stata la partitura lirico-spirituale del saggio politico dove preghiera, sogno e azione si fanno carne, il linguaggio accademico occidentale viene azzerato e trova concretezza la profezia dei reietti.
Sono arrivato a tale risultato liberando il mio «estremismo umano», vivendo oltre il limite della perdita del controllo di sé per il dolore del martirio di sorelle, fratelli e di storiche guide dell’umanità, al fine di giungere a «quell’unico istante che svelerà l’invisibile» di cui parla Mahmoud Darwish, e descriverlo.
Questo poetico monologo epico invita alla sovversione di tempo e luogo ed è innevato dall’inserzione di frasi in arabo e citazioni coraniche per far ascoltare al lettore la voce diretta, musicale della Rivoluzione Palestinese.
Senza cadere nella retorica della scrittura militante tradizionale, senza piagnistei per i martiri – i testimoni di fede, gli attestanti del genocidio – mai chiamati “vittime”. Vittime sono gli esseri viventi consacrati o immolati alla divinità. Vittima è una parola infame che giustifica e legittima i carnefici.
Perché i remi non solcano l’acqua per fare schiuma ma per navigare attraccare nel campo di battaglia. Come in tutti i miei i libri, l’approdo è costituito da parole autentiche, affilate come lame che puntano dritte alla gola dei carnefici.

Prima di cominciare a discuterne mi hai detto che La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre rappresenta un’evoluzione sostanziale nel tuo percorso di poeta e scrittore politico. Vuoi spiegarlo ai nostri lettori?

È il terzo capitolo della «tetralogia del campo di battaglia come paradiso», dopo La direzione è storta e Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi. Qui però supero la dimensione delle solitudini resistenti per aprirmi all’abbraccio di una terra che sarà liberata e di un intero popolo, il popolo palestinese, il popolo dell’anima di ogni oppresso del pianeta.
Qui delineo un netto e condiviso futuro, quello della sorgente società della fede, della siyâssa, della politica come cura di donne, uomini e del creato, che si contrappone alla decadente società della distruzione, del profitto, della politica come dominio, colonizzazione, annientamento di donne, uomini e del creato.
La battaglia dei rivoluzionari palestinesi e dell’Asse della Resistenza contro il capitalismo genocidario occidentale è dunque la battaglia culminante per l’avvenire del genere umano.

Il 7 ottobre è una data fondamentale per il popolo palestinese. Ad un anno di distanza, cosa è cambiato secondo te?

Ti ho risposto prima. No, non solo per il popolo palestinese.
È un giorno di liberazione cruciale per gli esseri umani diseredati in ogni angolo del mondo.
È un giorno che sancisce l’inizio della sconfitta per i nemici dell’umanità ossia il colonialismo israeliano, statunitense ed europeista.
È la data centrale di un processo rivoluzionario irreversibile che prosegue in questi istanti con la resistenza palestinese, libanese, yemenita, siriana, irachena che tengono, dopo più di un anno, in scacco potenze nucleari mostrandone la vulnerabilità.
È cambiato tutto dopo il 7 Ottobre. Tutto è chiaro a chi abbia gli occhi dell’anima spalancati.
Israele è passato da un genocidio strisciante a un genocidio conclamato con la compartecipazione di ogni governo e stato nordoccidentale. E s’è sciolto, come scrivo nel libro, il «trucco pesante delle garanzie democratiche […], scoprendo il volto autoritario e discriminatorio dell’Unione Europea. In tanti lo avevamo già scorto nella guerra contro i migranti e gli ultimi sui gradini della scala sociale. Ora, per chiunque, è difficile negare la mostruosità repressiva delle dodici stelle di Bruxelles e Strasburgo, sempre più simili a dodici stelle di David».
Dopo il 7 Ottobre, anche qui, anche in questo disgraziato Paese, nessuno può più sottrarsi a un interrogativo elementare.
Scelgo d’essere complice del genocidio dei palestinesi e del massacro della «razza dei senza nulla» dal marciapiede sotto casa fino a Gaza, alla Cisgiordania passando per il Libano?
O scelgo di combattere effettualmente, senza tregua, andando oltre me stesso, contro un sistema schiavile che mi riduce ad accogliere la squallida sopravvivenza come una benedizione e intende nientificare il popolo che più di ogni altro sa rivoltarsi ai boia nordoccidentali?
È una domanda che non accetta risposte mediane, civili, pacifiche, rassegnate o noncuranti. Perché significano un’indiretta o diretta responsabilità nei mattatoi del capitalismo sionista.

Illustrazione di Abu Manu

Al contrario di quanto emerge dalla propaganda dei media occidentali, i palestinesi sono un popolo unito che fa dell’uguaglianza la propria bandiera. In questi anni c’è stata quindi una forza diversa che ha animato lo spirito palestinese? Quale? Perché?

Il suprematismo nordoccidentale definisce i palestinesi “terroristi” o in balia delle “politiche terroristiche” delle organizzazioni rivoluzionarie che incarnano la lotta armata sul campo, che sono presenza in trincea per la giustizia in terra (attenzione, presenza, ovvero una concezione orizzontale, celeste e opposta al teatrale meccanismo di rappresentazione delle false democrazie liberali).
Il fondamentalista ateo non trova spiegazione alla loro assertività fideista e sovversiva, all’orgogliosa autodeterminazione palestinese nonostante 76 anni di apartheid, occupazione genocida e colonialismo d’insediamento.
Come possono «cittadini del nulla» – per citare la psichiatra e scrittrice Samah Jabr – continuare a coincidere con se stessi e la terra defraudata?
Come possono non aver smarrito soggettività psichica, culturale, politica e sociale?
Come possono non essere sprofondati nell’auto-oggettivazione?
Come possono credere nell’azione comunitaria e nell’affermazione della volontà collettiva?
Come possono mantenere una potenza identitaria che i popoli mediterranei non arabi, italiani per primi, fagocitati dall’europeismo e dall’atlantismo, hanno svenduto rapidamente, in pochi decenni, subendo soltanto in minuscola misura quell’interminata brutalità coloniale?
La risposta si trova nella fede, nella «sustanza di cose sperate» di cui parla Dante nel XXIV canto del Paradiso. Fede religiosa e fede nella liberazione, nella vittoria sugli aguzzini israeliani, nell’edificazione di una realtà senza diseguaglianze.
La fiducia assoluta nell’ultramondano e nel levarsi dell’armonia nella prima vita è ciò che più terrorizza sia la consorteria ebraico-sionista che i pacifisti e stalinisti, falsi sostenitori della Palestina.
«Vogliono eliminare il popolo palestinese perché sanno che è l’unico libero in questo mondo schiavizzato, ma si sbagliano. Non finiamo mai: se uno di noi muore, ne nascono altri dieci al suo posto, e tutti noi siamo resistenza. […] Se solo avessimo un quarto delle risorse che possiedono [i leader dei Paesi arabi], non avremmo liberato solo la Palestina, ma l’intero mondo», ha scritto incontestabilmente Anan Yaeesh, prigioniero politico palestinese nelle galere italiane, a cui sono dedicati il libro e il suo capitolo conclusivo.
Le parole di Anan spiegano meglio di qualsiasi discettazione che l’attitudine inimmaginabile alla resistenza e l’attesa, il desiderio del sacrificio di sé per riconquistare la propria patria siano tra gli elementi che uniscono indissolubilmente i palestinesi.
L’uguaglianza per i palestinesi non è aspirazione astratta e non riguarda soltanto il raggiungimento del martirio, punto fermo nell’anima della guida politico-militare di fama mondiale, come in quella del ragazzo che fa la guardia su un tetto diroccato per proteggere sorelle, fratelli, madri e padri.
Sgombrato il campo dalla leadership dei traditori di Oslo – non a caso amatissima dagli occidentali – e riunificato il fronte della resistenza con l’operazione Sayf al-Quds (Spada di Gerusalemme) nel 2021, posso affermare senza timore di smentita che le condizioni di vita delle figure a capo dei movimenti siano le stesse della popolazione.
I corrotti razzisti del Nord Occidente, spessissimo con stinte bandiere rosse in pugno, tesi a salvaguardare il loro miserabile «sottovivere», non sono in grado di cogliere l’essenza della Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre.
“Non è corretto definirla Rivoluzione Palestinese”, mi attaccano spauriti e indignati. “Non ha forse prodotto effetti inversi? Non ha forse comportato ancora più morti per i palestinesi?”.
Non sanno che la Rivoluzione Palestinese non obbedisce ai calcoli usuali dei rischi e dei benefici della logica mercantile occidentale e dei compendi del machiavellismo leninista che li impregnano sino al midollo.
“Dov’è la presa del potere?”, mi chiedono pateticamente stizziti.
Non hanno idea che per i rivoluzionari palestinesi e islamici gli obiettivi non sono potere e sovranità (per loro, saggiamente, appartengono a Dio) ma l’autorità sulla propria terra da condividere con la comunità.
Questa Rivoluzione, questo Diluvio aveva e ha come risultato immediato la rottura dell’argine e rivoltare la terra santa sino a renderla divino fango dove i sionisti
affondano e annegheranno.
Altre nubi giungeranno, altri fiumi esonderanno, altre dighe si sbricioleranno. Il Tūfān al-ʾAqṣā è solo alla prima infinità di gocce.

“Le mani vedono insieme agli occhi” è una delle poesie presenti nel libro. La dedichi a Roshdi Sarraj, fotografo e videomaker, che ha immortalato e documentato i massacri compiuti dagli israeliani durante le Marce del Ritorno del 2017 e nei bombardamenti su Gaza del 2021.

Le mie mani
occhi immobili,
pieni di sangue.
Persino carezzare l’amore,
guardarlo, fa male.
Roshdi, mi dirai come guarirle?

Hai trovato una risposta, Filippo?

La risposta è nel mio eterno rapporto con la bellezza di Roshdi, con le sorelle e i fratelli martirizzati, nei libri che scrivo, nella via che percorro.
E su quella via ho incontrato una risposta incantata alla domanda finale de Le mani vedono insieme agli occhi da Abu Manu (Carlo Torrisi).
Ha letto il libro e deciso, come mi scrisse a settembre mentre ero in Libano nei primi giorni degli attacchi terroristici e stragisti israeliani, di «abbracciarlo».
Così ha regalato quattordici dipinti, quattordici scene della “Via Crucis Palestinese” nel genocidio sionista, alla mia opera. Diventandone co-autore. Questo è il suo lavoro finale come pittore. Unire i suoi abbaglianti colori di dolore e lotta alle mie parole gli è parso eccezionale, giustissimo.
Conoscevo e ammiravo Carlo per fama come poeta, scrittore, e militante per oltre 30 anni nella Resistenza Palestinese, nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ma non personalmente.
Non gliel’ho ancora raccontato: dopo aver guardato e riguardato incredulo, commosso il messaggio e le sue immagini di lancinante forza, camminai di notte nei vicoli di Shatila carezzando quei muri che tutto conoscono e tutto reggono con amore. Per ringraziarlo di un dono così grande.
Ero e sono certo che avrebbe compiuto lo stesso gesto fosse stato lì con me.

Concludi il libro con la frase: «Perché combattere per la liberazione e la salvezza dei palestinesi è combattere per la liberazione e la salvezza di tutti gli esseri umani». Ma l’essere umano riuscirà mai a liberarsi dal proprio egoismo?

Questa domanda mi sembra schiacciata su una limitata e dominante porzione di mondo, il Nord Occidente. Sulla sua antropofaga ideologia liberale, sull’«individualismo apocalittico» che caratterizza la società tardo-capitalistica, sulla sua necrosi sociale.
Come scrivo nelle mie pagine, abbiamo di fronte l’esempio della «generosità illimitabile», «preveggente» di libanesi, yemeniti, siriani, iracheni che, per difendere Gaza e «non deluderla», vanno incontro alla ferocia massacratrice degli ebrei-sionisti, degli statunitensi, degli europei.
C’è la furia delle masse arabe, islamiche che vogliono liberare al-Quds (Gerusalemme) e avversano la corruzione dei loro governi asserviti ai sicli, ai dollari.
Oppure, restando qui, nella nutrita minoranza dissidente sulle rive del Mediterraneo sotto il controllo dell’Unione Europea, c’è la devozione per la Palestina di militanti che affrontano efferatezze repressive e carcere. Per non parlare del movimento studentesco nel Nordamerica.
Non ne farei dunque una questione universalizzante e fuorviante sulla natura umana.
Mi ripeto, è inauditamente semplice: occorre invece operare una semplice distinzione tra chi è complice, consapevole o inconsapevole, del genocidio coloniale dei palestinesi e degli oppressi, e chi è disposto a mettere in gioco tutto pur di combattere con la necessaria spietatezza accanto ai palestinesi e agli oppressi.

L’AUTORE

Filippo Kalomenìdis, scrittore, poeta e militante politico. Ha pubblicato La direzione è storta. Reportage lirico sul Covid-19 e i virus del potere (2021) e, con il Collettivo Eutopia, Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022). È stato sceneggiatore per il cinema (Io sono con te, 2010) e la televisione (tra le serie di cui è autore, Il Grande Gioco, 2022).

È possibile acquistare La rivoluzione palestinese del 7 ottobre qui: https://www.edizionipgreco.it/catalogo/autore/325/filippo-kalomenidis

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