Poesie di mostri e mostruosità | L’Altrove
La poesia non è un mezzo tipicamente associato a bestie ed esseri spaventosi. Le liriche, in particolare, tendono a essere brevi, tenere e incentrate su questioni riguardanti la realtà, la natura dell’uomo, o concetti astratti come amore e morte. Le poesie tendono anche a essere considerate come resoconti veritieri, l’inverso dei lungometraggi sulle creature con effetti speciali assurdi.
Ma i poeti, come tutti gli altri, vivono in un mondo di eventi disastrosi più grandi di loro. E il mostro, in particolare il mostro gigante, è un archetipo che risale direttamente al mito antico.
Talos, il guardiano di bronzo di Creta, e Humbaba, l’orco dell’Epopea di Gilgamesh, sono solo due pericolosi titani della storia letteraria. È allettante pensare che oggi sappiamo abbastanza di ciò che ci circonda da non essere più intimoriti dalla possibilità dei giganti. Ma la verità è che c’è ancora molto che ci fa sentire piccoli e vulnerabili. Scrivere di mostri enormi è un modo per affrontarlo.
Ecco altre sei poesie che trattano in modi diversi di mostri e giganti:
La leggenda di Beowulf
Beowulf è un poema epico anglosassone sulla sconfitta di Grendel, una creatura la cui forma esatta è ancora dibattuta. A seconda della traduzione che si legge, Grendel è un “demone tetro”, un berserker, una “cosa mal creata in forma umana” o un “orribile straniero” .
Due cose sono certe, però: è molto grande ed è un violento assassino che deve essere annientato.
La Géante (La Gigantessa) di Charles Baudelaire
Questa poesia è tratta dalla raccolta di Baudelaire Les Fleurs du Mal (I fiori del male, 1840-1867), che al momento della pubblicazione fu definita “un insulto alla pubblica decenza” .
La Gigantessa
Nel tempo in cui la Natura, nel suo estro possente
concepiva ogni giorno figli mostruosi
avrei amato vivere accanto a una giovane gigante
come ai piedi di una regina un gatto voluttuoso.
Avrei amato vedere l’anima fiorirle con il corpo
e crescere liberamente in terribili giochi,
indovinare se il suo cuore cova un’oscura fiamma
quando umide nebbie navigano nei suoi occhi.
Percorrere liberamente le sue magnifiche forme
strisciare sul crinale delle sue ginocchia enormi
e talvolta in estate, quando i soli malsani
stanca la fanno stendere attraverso la campagna
dormire con noncuranza all’ombra dei suoi seni
come un borgo tranquillo ai piedi delle montagne.
La poesia riflette alcuni dei temi controversi del libro, deliziandosi con il fascino erotico. Lungi dall’opporsi alla gigantessa, il narratore della poesia vuole vederla “crescere senza freni”, immaginando una spedizione attraverso il suo vasto corpo. Qui, Baudelaire propone la mostruosità come regno di meraviglia e tentazione.
Jabberwocky di Lewis Carroll
Una delle poesie più famose di Carroll (1832-1989), Jabberwocky pullula di parole senza senso (manxome, whiffling, burbled). Questo strano linguaggio mantiene il titolo Jabberwock oscurato anche quando ne viene raccontato l’approccio infuocato e la sconfitta.
Rappresenta fedelmente la mostruosità come qualità: possiamo percepirla, inventare parole per descriverla, perfino ucciderla, ma non potremo mai comprenderla appieno.
Qui la traduzione italiana di Milli Graffi (Il Ciciarampa, 1975):
Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi
Ghiarivan foracchiando nel pedano:
Stavano tutti mifri i vilosnuoppi,
Mentre squoltian i momi radi invano.
«Rifuggi il Ciciarampa, figliuol mio!
Ganascia sgramia e artiglio scorticante!
Sfuggi all’uccello Ciciacià, perdio.
Guardati dal Grafobrancio ch’è friumante!»
La spada bigralace ei strinse in pugno;
L’omincio drago cominciò a cercare –
Infin che stanco sotto il pin Tantugno,
Fermossi un poco per poter posare.
E mentre egli broncioso ponderava,
Il Ciciarampa come d’ira spinto,
Sbruffando sortì fuor dalla sua cava,
Di schiuma e bava sbiascico e straminto.
L’un colpo appresso all’altro si raddoppia:
Scric-scrac trinciava il bigralace brando!
Lo lasciò morto, e la sua testa moppia
A casa riportava galonfando.
«Il Ciciarampa! E lo uccidesti tu?
Ti stringo al petto, mio solare figlio!
O gioiglorioso giorno! Ippioh! Ippiuh!»
Ansante, ei ridonchiava in suo giupiglio!
Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi
Ghiarivan foracchiando nel pedano:
Stavano tutti mifri i vilosnuoppi,
Mentre squotian i momi radi invano.
L’uomo-falena di Elizabeth Bishop
L’epigrafe di The Man-Moth spiega che è stata ispirata da un errore di ortografia della parola “mammoth”. L’uomo-falena di Bishop non è necessariamente un gigante, ma diverse righe alludono al fatto che abbia una prospettiva da gigante (“L’intera ombra dell’uomo è grande solo quanto il suo cappello”, “Pensa che la luna sia un piccolo buco in cima al cielo”).
È una creatura triste e sola che versa una lacrima alla fine della poesia. Bishop ha spesso scritto dell’oscurità nella psiche umana e la sua interpretazione della bestia cittadina che vive in metropolitana è un’allegoria dell’alienazione urbana.
L’Uomo-Falena
Quassù
a turare le crepe è un chiardiluna pesto.
L’intera ombra dell’Uomo non è più grande del cappello.
Sta ai suoi piedi come il cerchio alla base di una bambola,
facendo di lui uno spillo invertito, la punta calamitata dalla luna.
Non la vede, la luna; ne osserva solo le vaste proprietà,
avvertendo la strana luce sulle mani, né calda né fredda,
di una temperatura impossibile da registrare col termometro.
Ma quando l’Uomo-Falena
fa la sua rara visita di circostanza in superficie,
vede una luna un po’ diversa. Eccolo emergere
da un’apertura sotto il bordo di un marciapiede
per poi nervosamente dare la scalata alle facciate delle case.
E’ convinto che la luna sia un forellino in cima al cielo,
la riprova che il cielo non offre riparo.
Trema, ma fin dove può arrampicarsi ha da indagare.
Su per le facciate,
l’ombra uno strascico simile al panno di un fotografo,
s’arrampica in misura spaventevole, convinto che stavolta riuscirà
a infilare la testina in quel pertugio tondo e netto
e a riversarsi, come da un tubo, in spire nere sulla luce.
(L’Uomo, sotto di lui, non si fa certe illusioni).
Ma quel che più teme, quello l’Uomo-Falena deve fare, pur se
fallisce, è ovvio, ricadendo spaurito ma incolume.
E poi ritorna
ai pallidi sotterranei di cemento, sua dimora. Svolazza,
impazza e non ce la fa a salire sui treni silenziosi
in fretta come vorrebbe. Le porte si richiudono di scatto.
L’Uomo-Falena siede sempre in senso inverso
rispetto alla direzione e il treno, senza cambi di marcia
né passaggi graduali, parte a razzo.
Lui non sa dire a che velocità viaggi a ritroso.
Ogni notte è lì
a farsi trascinare nei tunnel artificiali, a sognare sogni ricorrenti.
Come le traversine sotto il treno, sotto la mente in fuga
ricorrono i sogni. Non osa guardare dal finestrino,
perché la terza rotaia, l’ininterrotta dose di veleno,
scorre lì accanto. Lui lo ritiene un male
per cui è predisposto. E come ad altri avvolgersi
nelle sciarpe, a lui tocca tener le mani in tasca.
Se lo beccate,
puntategli una torcia nell’occhio. E’ tutto una pupilla scura,
una notte in sé compiuta, il cui orizzonte cigliato si restringe
mentre vi fissa e chiude l’occhio. Allora dalle palpebre una lacrima,
unico suo bene, come per l’ape il pungiglione, sfugge.
Furtivamente la raccoglie in palmo di mano e, se vi distraete,
l’ingoierà. Ma basta stare in guardia ed è pronto a consegnarla,
fresca come da fonte sotterranea e così pura da poterla bere.
La canzone del mostro di Loch Ness di Edwin Morgan
Il poeta scozzese Edwin Morgan (1920-2010) era specializzato in giochi linguistici. The Loch Ness Monster’s Song è quasi incomprensibile: una breve esplosione di rumori acquatici trascritti. Ma potrebbe facilmente essere una poesia scritta in un’altra lingua.
Ci sfida a riconoscere che ciò che chiamiamo “mostruoso” potrebbe essere semplicemente insolito: non una minaccia, ma un’opportunità di connessione.
Draghi di Matthew Francis
Ogni verso di questa poesia, tratta dalla raccolta omonima di Francis del 2001 , termina con la parola “draghi”. Ma la narrazione è quella del fallimento nel trovare un singolo drago.
Questo contrasto viene utilizzato per illustrare come mostri e creature mitologiche incombono nelle nostre menti principalmente come risultato della nostra immaginazione. In altre parole, li inventiamo per colmare le lacune della realtà. Ne abbiamo bisogno, perché senza di loro ci sono troppi indizi che non puntano da nessuna parte.