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Recensione: “Poesie nascoste nella dispensa” di Pietro Rosetta | L’Altrove

Succede non di rado che a una certa soglia della vita, si decida di tirare fuori dal proverbiale cassetto, delle carte custodite. È quello che è avvento al medico oculista dott. Pietro Rosetta che esordisce con la silloge di Poesie nascoste nella dispensa (Guido Miano Editore, Milano 2024), dedicata alla madre “che ha saputo esaudire ogni mio desiderio trasformandolo in un insegnamento”. Egli si era affacciato già, sul finire del secolo scorso, a partecipazioni varie in ambito letterario, versato alla poesia di emozioni, ivi comprese le proprie radici. Di ciò abbiamo riscontro nei temi trattati: “amore, malinconia, solitudine, disagio esistenziale, memorie d’infanzia; la sua si potrebbe definire poesia dei sentimenti”. Il Nostro risiede a Milano ove svolge l’attività presso strutture ospedaliere prestigiose: per professione redige relazioni essenziali, e questo si riflette nella sua scrittura creatrice, il modo di porgersi sereno, conversevole e con rilassatezza, “l’ungarettiano sentimento del tempo”.

Enzo Concardi, poeta, critico e giornalista, nella prefazione individua due tematiche prevalenti, l’amore e la ricerca esistenziale che, comunque, sono interconnessi; quindi abbiamo romanticismo sentimentale con echi leopardiani su amore e morte, velati di incertezza anche nella espressione, o di vaghezza che crea mistero e il “fascino dell’ignoto”. Insomma eleva un inno all’amore, legato a un inno alla morte e rivolge le domande di sempre; ovvero, luci e ombre, Eros e Thanatos. Così commenta: per il senso della morte, il componimento d’apertura “I canti delle vedove”; e per l’amore, “A Paola”. Inoltre evidenzia l’uso delle immagini marine (compreso il naufragio) come mezzo per simboleggiare un amore “agonizzante”, l’uso di un ventaglio espressivo dei sentimenti d’amore dal tenero all’appassionato ed anche alla dolcezza materna. Le anafore sono utilizzate in tutta la raccolta per amplificarne il contenuto.

Si tratta di 64 Poesie nascoste nella dispensa, ma a quanto sembra nella dispensa della cucina erano custodite anche altre cose, come vedremo (a p.33). Pietro Rosetta si confessa o semplicemente narra del suo vissuto familiare e intimo, delle sue aspirazioni e dei suoi tentennamenti. Ne I canti delle vedove, componimento di apertura, abbiamo uno spaccato realistico che rispecchia i tempi andati specialmente nelle regioni del sud, quando le anziane, coperte con mantelline nere, si riunivano a recitare il rosario. Immagine forte: “tutte le sere ad ingannare l’attesa / di un destino che tarda ad arrivare” dove il titolo fa da refrain, motivo portante come una nenia, una rassegnazione. Sul fronte dell’amore, non so se il Poeta voglia illudersi o se combatta contro sé stesso, e se il linguaggio aspro nasconda una sua ribellione, consapevole del tormento che crea l’amore, come nel caso seguente: “Dalle pieghe della gonna stropicciata / dalle ciocche spettinate dei capelli / dai palpiti incerti degli occhi ostili / dal piglio dei gesti / dalle mani indecise / dall’orgoglio trafelato / sgorga il nostro amore / così bello da vedere quando ti guardo.” (p.17, Lite).

Talvolta l’uso della congiunzione (e) ripetuta, moltiplica l’emozione, come un sussulto del cuore o un incubo di cui voglia liberarsi. Un continuo inno all’amore, sì, ma è un” sogno che non si vuole realizzare”; pensieri d’amore degne di figurare nei bigliettini dei più famosi innamorati, così: “frutto acerbo”, “fiore rosso tra i fiori”. Un amore che è ondivago, forse, o comunque che richiama metafore legate al mare, al naufragio, come si è scritto sopra. Passioni travolgenti e frasi ardite, dolcezze soavi che paiono portarlo altrove. È un riannodare memorie che rischiano di sbiadirsi, che rimandano alle proprie radici; forse un grande amore, sofferto e “annegato”. Abbiamo un concentrato di sentimenti intimi che sono il nocciolo della sua poetica. Così ne Il tempo è maturo (p.29) verifichiamo accentuato l’uso dell’anafora, dove l’immagine che esprime “e noi come cipressi saremo là / ritti ad aspettare gioie e dolori / con le radici abbracciate alla vita”, comunica la domanda e il dubbio esistenzialista sul senso della vita propria; e nei momenti di sconforto invoca la madre.

La poesia, si sa, è evocativa e si lascia interpretare affidandosi anche alle aspettative soggettive del lettore; ciò detto, mi sembra che la donna da lui ammirata, si sia votata ad una missione umanitarista o sia diventata una religiosa laica. Difatti: “Io me lo domando, mentre tu /senza parlare preghi quel tuo / Gesù che da sempre nascondi / in cucina nella dispensa.” (p.33); o forse, si tratta della sua compassione verso le suore che assistono gli infermi, fra panni sporchi e maleodoranti; ma potrebbe anche riferirsi alla madre; così le tre figure (donna, suora, madre) diventano una sola.
Abbiamo qualche diversivo per stemperare un po’, come pausa, per esempio dove ‘Amore’ può essere inteso in senso dialogico tanto per la donna desiderata, quanto per la madre. L’Autore ci introduce nella sua stanza, abbandonata, il cui tempo è segnato da “i vecchi orologi fermi, la cenere tra le lenzuola //e io qui ad ansimare / tra i rottami della mia vita” (p.*35). Oppure interloquisce con i fantasmi del passato, così “Maria, stanca Maria / lascia che ascolti il silenzio” (p.*36); oppure dice “oltre non scorreranno le nostre lacrime / quando Cassandra ti dirà di una stagione / dove non più occhi osano indovinare l’orizzonte.” (p.*37); o anche si riflette nella propria figura giovane in un rimando di immagini, l’una sull’altra come quando “per cercare il fiore / appassito dei tuoi vent’anni / e invece, te ne vai sorda e uguale” (p.38, Follia). Giochi d’amore giovanile, “nel colore blu dei tuoi occhi / Francesca mia.” (p.*59); elevazione dello spirito: “È l’alba e tu stai dormendo” (p.60, A Paola).

Naturalmente Pietro Rosetta non mette paratie stagne nelle varie espressioni che invece si intrecciano, come ho scritto sopra; così abbiamo anche il senso di solitudine, di abbandono, raramente di estasi. Il suo è un discorso interiore; meditazioni che costringono, noi lettori, a unirsi in queste riflessioni, per esempio: “A cosa pensano le case / quando non ci siamo / e restano sole ad aspettarci?” (p.*39). Ma anche tristezza per una sorta di mancamento o di capovolgimento di morale, nella leggendaria regina egizia: “Leggeranno di ventri impomatati, / di amori stonati, di cosce spalancate, / di mediocrità esibita. //…/ di Berenice uscita dalle acque / per svelarmi il suo segreto / con un bacio.” (p.*46); o deluso perché abbracciato da “chele di granchio”. (p.*51). Sono come un bruciore allo stomaco, violento, molto sofferto o forse l’ammissione della inutilità per avere “rubato tempo al tempo” (p.*56), cioè una corsa contro il tempo, per poi voltarsi indietro.
Nella vastità dei pensieri c’è “il deluso dolore di una figlia /come rumore confuso nel nostro silenzio”. (p.*64) che suona come un bilancio in negativo; l’ammissione di una (sua) “bambina nascosta, mai dimenticata” (p.65, Chiaro di luna). Troviamo frasi intime, forti, metafore ardite nella coppia, o frasi d’affetto che celano “parole non dette”, desideri inesprimibili. Una sorta di bilancio della propria vita, una specie di ripensamento, aspettative disattese. “E invece torneranno, aridi di lacrime” (p.*68). Il Poeta assume diversi volti e vive diverse stagioni della vita; abituato a osservare gli occhi, come un iridologo, individua diverse identità.
Omettendo la barra spaziatrice cito per esteso un pensiero autobiografico che lo fa uomo del Sud, anzi di un’isola del Sud: “Oggi ho lasciato l’isola, seduto sulla nave dei ricordi e ancora volevo aggrapparmi alle case che mi guardavano allontanare dal porto e avevo paura di abbandonarti come mille e mille volte avevo già fatto.” (p.*69). Un sentimento disperato che conoscono tutti quelli che lasciano la propria terra; riemergono i pensieri dei tanti sacrifici affrontati dalla madre (emerge un senso di abbandono): “Anche oggi, mamma, entrando nella mia stanza tra mille sacrifici indaffarata / mi sembravi serena meravigliosa resurrezione la tua” (p.*73).

Pietro Rosetta ci ha aperto una “porta”, ci ha introdotto nella sua “stanza”. La “dispensa” ha custodito i sogni del giovane poeta e pure la fede della giovane madre, fra “onde” emotive. Avere evocato la madre, è come averne prolungato la presenza, è come volerle dire “mamma resta ancora con me, non te ne andare” (mie virgolette). Ci regala l’insegnamento del rispetto dovuto alla madre, verso la quale non facciamo mai troppo. Tanti sentimenti strazianti e dignitosamente espressi; e noi ne varchiamo la soglia. La sua vita forse è stata un rosario e perciò le sue Poesie nascoste nella dispensa, meritatamente ricordano le anime “aggrappate a brandelli di verità malcelato spettacolo di miseria … nel silenzio della preghiera rifugiarsi chiedendo perdono” (p.*77). È vero, restiamo nel vago, tuttavia le parole usate ‘sipario’ e ‘ruoli’ mi suggeriscono le maschere e le tante vite vissute sul palcoscenico della vita; sta a noi comprendere. Perciò mi pare che meglio di così non poteva concludere: “Con dignità, vorrei incontrarti finalmente / mistica rivelazione.” (p.*80).

A cura di Tito Cauchi.

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