Recensione: “Fiori di Calendula maritima” di Antonino Stampa | L’Altrove
Il titolo Fiori di Calendula maritima (pianticella salvata dall’estinzione che cresce solo in una piccola parte costiera della Sicilia trapanese) ci colloca subito nella terra di Antonino Stampa, alla quale lo scrittore ci trasporta attraverso i suoi occhi innamorati: così Marco Zelioli in apertura della sua prefazione alla raccolta poetica in questione (pubblicata da Guido Miano Editore, 2024). In effetti è l’attaccamento radicale alla sua terra d’origine una delle più fertili fonti d’ispirazione lirica: così, fra le varie parti del libro – Come un battito d’ali; Noi e gli altri; Quel che lasciamo; Universo – è la quinta quella che mi pare risulti più efficace ed avvincente nelle formulazioni stilistiche ed immaginifiche, come nei contenuti umani, sociali e culturali: “Belice 1968-2018 (Quadri di un terremoto e del prima e del dopo. Un itinerario tra emozioni e ricordi)”.
La tragedia che si abbatté sulla Sicilia per lo scatenamento delle forze incontrollabili della natura viene rivissuta nelle sue componenti individuali e collettive attraverso alcune liriche temporalmente dislocate tra un prima, un durante e un dopo. Il come procedeva la vita dell’autore prima del terremoto viene scolpito da versi scarni ed essenziali, nei quali il destino della terra e del suo lavoro di contadino traspaiono con afflato epocale, intrisi di fatica e senza prospettive: «Solitario il mio passo / solitario il mio lavoro /… / Risalgo la valle /…/ oltre, / s’innalza la montagna / scabra…» (Del Prima). Poi il ritmo ripetitivo dei soliti gesti quotidiani che, tuttavia, hanno il sapore d’una cantilena poetica: «… Con me / la mula, / la bisaccia ai fianchi. / Mi lavo il viso / alla cisterna, / accanto la mula si disseta» (ivi). Ci sarà la biada per la mula e la tavola apparecchiata per la cena. Infine il presagio, o meglio, la certezza di quel che sarà il futuro della sua montagna, ovvero l’abbandono delle nuove generazioni, partite per altri mondi: «Questa mia terra /… / incolta alla mia morte / perché il figlio, / altrove, / altro mestiere, / altra vita conduce» (ivi).
Il momento della prima forte scossa per Antonino Stampa è simile ad un mare sconvolto che rovescia impietosamente le sue onde addosso a case e persone e «nel nero della notte / s’aprì la terra» e tutto divenne l’impero della morte, da cui scampa solo qualche sopravvissuto che s’aggira barcollante fra pietraie e macerie. Ma le scosse si ripetono: «…Ancora / la terra trema, / vibra, / si scuote. / Case sventrate svelano / pudori d’affetti. / Sotto le pietraie / giace la memoria» (15 gennaio 1968, ore 3, minuti 10). Sugli effetti della strage del sisma, una lapidaria riflessione del poeta: «Quella notte / morì una Sicilia. / Dopo / nulla è nato, / qualcos’altro / è venuto» (Premessa). Del dopo terremoto abbiamo due immagini in contrasto tra loro: quella della poesia Gibellina nuova – Le tre piazze, un quadro della ricostruzione che, tuttavia, appare ammantata da asetticità e distacco, forse nel rimpianto del vecchio nucleo abitativo distrutto dal sisma. E quella dei Ruderi di Poggioreale, dove il poeta rivive il dolore antico ma sempre vivo: «Il vento / fra i muri / urla, / piange nel mio cuore».
Anche altrove il richiamo delle origini è forte e consapevole, la lirica Siciliano è l’emblema delle sue radici: «Sono / di questa terra, / zattera a genti in fuga / nel vasto mare / o qui venute / per sete di dominio. / Non conto i popoli / che nelle mie vene / hanno versato il sangue. // Canto / questa terra arsa / che mi asciuga, / questo vento / che mi leviga, / questo mare che s’alza / in tempesta». E così troviamo anche un riferimento a Levanzo, pitture rupestri. Grotta del Genovese, dove gli antenati preistorici vivevano, cacciavano, pescavano il tonno, pregavano ed «abitavano questa terra, / la loro terra, / così diversa, / così uguale». Un canto al sole e alla luce diviene la poesia di Antonino Stampa nelle altre parti del libro: associandosi alla purezza del mare esso dà voce alla sapienza del gabbiano e non a «quanti della vita fanno commercio». Ma c’è spazio ancora per considerazioni e riflessioni sulla nostra esistenza, spesso così superficiale e frettolosa da trasformarsi in un monumento all’incomunicabilità e al conformismo; su chi siamo come abitatori del pianeta terra, che non è nostro, né dei nostri figli; sul futuro che è solo di Dio, mentre a noi appartiene il presente, forse. Ed infine le dediche all’amato Leopardi, col quale canta l’infinito e le stelle della «stanza smisurata e superba» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).
A cura di Enzo Concardi.
L’AUTORE
Antonino Stampa è nato nel 1946 a Trapani dove attualmente risiede; laureatosi in Filosofia presso l’Università di Palermo, ha insegnato Lettere nelle scuole medie. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Marine. Trasparenze in frammenti (1995), Specchio nascosto (2002), Distesi silenzi del mare (2003), Nei gorghi del tempo (2012), Chiedersi (2014), E non distinguo approdi (2017).