Poesie ritrovate

Poesie ritrovate: Elio Filippo Accrocca | L’Altrove

Elio Filippo Accrocca fu uno dei più significativi poeti del Novecento italiano, più precisamente del periodo post-bellico.

Nato a Cori, nel Lazio, il 17 aprile 1923, Accrocca studiò all’Università di Roma con il poeta Giuseppe Ungaretti, il quale fu un’influenza fondamentale nella sua poesia. Dalla metà degli anni Cinquanta Accrocca iniziò a sperimentare nuove direzioni. Fu socio di molte altre figure della scena culturale italiana, tra cui sia letterati come Alessandro Parronchi che artisti come Marco Lusini.

Nel 1959, insieme ad altri poeti come Giorgio Caproni, Antonio Seccareccia e Ugo Reale fondò il Premio Nazionale di Poesia Frascati, un concorso annuale di poesia per opere inedite. Dal 1977 insegnò Lettere all’Accademia di belle arti di Foggia dove fu anche il direttore. Morì a Roma, all’età di 72 anni.

Le sua prima raccolta di poesie, Portonaccio, pubblicata da Scheiwiller/All’Insegna del Pesce d’Oro nel 1949, porta la prefazione di Ungaretti. Successivamente diede alle stampe numerosi libri tra cui ricordiamo Caserma (1950), Reliquia umana (1955), Innestogrammi-corrispondenze (1966) e Roma così, con un testo critico di Salvatore Quasimodo (1973). A queste seguirono diversi volumi di saggi letterari e traduzioni.

Le prime poesie di Elio Filippo Accrocca sono debitrici all’esempio del suo primo maestro: Ungaretti. Accrocca scrisse
in linee sinuose che circondano il soggetto anziché attaccarlo frontalmente. I singoli versi sono organizzati in unità, ma privi della veemenza che associamo ai sostenitori di “verso proiettivo”. La punteggiatura è mantenuta al minimo o del tutto eliminata, per favorire il libero flusso delle linee. Tematicamente, queste poesie sono dedicate all’esplorazione di sé ma anche in relazione all’Altro.

I suoi testi, specialmente quelli contenuti ne Il Superfluo, portano il lutto per la perdita del figlio, il dolore della guerra appena finita; sono molto commoventi e piene di intensità e come disse lo stesso Ungaretti nella prefazione a Portonaccio: «[la poesia di Accrocca] è densa d’affetti di tenerezze, quasi silenziosa»

Il ritorno

Non riesco ad abituarmi
a non vederti più, a non sentirti:
è forse la condanna per chi resta?

Se avessi potuto raccogliere
nel cavo della mano la tua voce,
avrei almeno un’eco del respiro…

La tua aurora ancora scrive: è il fiato
d’una parola che rimane, il segno
della tua presenza indecifrabile.

Oggi due moto per le vie di Roma
(la stessa marca, stessa cilindrata):
ho chiamato, ma hanno accelerato.

Se ripercorro quella litoranea
o sollevo la sabbia di Lavinio,
tra le dita riaffiora il tuo profilo.

La filigrana del viso
torna a emergere dal vuoto,
come a un’estrema lente di follia…

Da Il Superfluo


L’impronta

Se potessi portarti
qualche cosa di quello che hai lasciato
di qua… fammi sapere che desìderi.

Beato chi non sa, chi non ricorda:
la memoria è da uccidere, non l’uomo.
Altro che un dono, la memoria è un peso.

Però se mi mancasse pure lei,
oltre che te, mi resterebbe il nulla:
la condanna sarebbe più straziante.

Le tue cose, gli oggetti col tuo nome
sono tappe del vivere
che ci danno l’impronta dei tuoi passi.

Da Il Superfluo

Accrocca creò una poesia della coscienza e della meditazione. Successivamente invece analizzò attentamente, in chiave anticonformista e in modo ironico, la condizione dell’uomo nella civiltà tecnologica di oggi, senza illusioni. Il linguaggio deve necessariamente conformarsi agli aspetti frammentati e confusi della mondo contemporaneo: questo spiegò il poeta avendo adottato la tecnica del collage, creando tanti innesti tra varie voci, da libri, giornali, radio e televisione. In un’intervista del 1966, Accrocca disse: «Quando scrivo sono consapevole di molti voci: quelle di altri poeti, uomini di politica, critici d’arte, giornalisti, economisti, sociologi, e cerco di trasmetterli alla pagina».
La poesia di Accrocca è quindi così legata al presente giorno e ai suoi problemi: la sua originalità consiste nel fatto che lui parla una lingua moderna ma non dimentica le antiche leggi e le speranze dell’uomo.

La polvere

…di un fiume si sa la destra e la sinistra
seguendo la corrente
ma una strada non ha
il verso decifrabile.
Nemmeno il presidente della Rai
ti conosce, non sa dove ti trovi,
ignora il grado della tua solitudine…

Non sei che un guscio vuoto, Babuino,
creatore del nulla, irriconoscibile
involucro di elementi che formicolano
indaffarati nello specchio delle vetrine immobili:
la loro varietà sa di colore espanso
che una suola o un tacco può travolgere
inavvertitamente
senza ragione o scelta…

ma una traccia del nulla è già mistero
che contiene lo scotto di quel vuoto:
nella «vetrina»
ci sei anche tu, irriconoscibile, sdoppiato nel tempo,
oggetto dentro il raggio d’uno sguardo,
figura, sei persona, nome, età, forma, volto
che insegui con il margine dell’occhio
a catturare un simbolo
che non ha peso, che non ha misura

La tua velocità, buio, è superiore
a quella della luce…

Un’occhiata al rettangolo irregolare di cielo
di tanto in tanto per staccare lo sguardo
dalle strisce, ma la pupilla
è meccanismo terrestre,
sa di vincolo umano, d’esistenza
Tu ignori curve/sfere/ellissi,
le leggi si attrazione, le linee dell’universo,
sopporti appena i tagli del momento,
la tenerezza dei colori, i toni dell’altrui
modulazione, lo spazio tra le cose,
la mia voce che sorprende anche me

e questa è vita
che a millimetri annoveri decifrando
la corrente che fluttua sulla strada
enumerando volti che incornici sotto il vetro
delle tue parole,
offrendo tempo, un dono senza prezzo
che da solo disperderai dal tuo comune livello
con le mani inesistenti:
altra polvere non avrai che queste pagine…


L’infinito? 

Dove vanno i segmenti, dove approdano
i tratti d’esistenza, quale «linea»
li calamita e forse ricongiunge?
L’involucro si sa come finisca,
ma il pensiero, il dolore, la memoria,
la fantasia, la parola, il segno?
La ragione – null’altro – mi consegna
un’unica risposta: l’universo
è continua presenza che ci assorbe.
Mistero, enigma, dubbio sono strati
negativi dell’essere, appartengono
al limite che noi chiamiamo vita.
Termina il tratto di segmento, il numero
dei giorni che l’involucro racchiude:
è il Tempo senza cifre l’infinito?

Da Siamo non siamo, Rusconi.

La foto del poeta è di Dino Ignani.

Visualizzazioni: 75

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *