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Recensione: “Vivo e invisibile” di Alessandro Camilletti

L’epoca dell’opulenza ha generato il bisogno del vuoto, la necessità dell’assenza, la voglia di negarsi al mondo. È quello che dichiara fin dal titolo Alessandro Camilletti nel volume di poesie Vivo e invisibile (peQuod, 2023), ma nel senso che della poesia frequenta il limite estremo, nella forma come nei contenuti. Raccoglie poesie scritte nell’arco di quattordici anni e a leggerle si sente il rumore dell’affilatura, lo sfregare dell’erosione; emergono dalle acque millenarie versi definiti che ricordano le rocce levigate. Qui il poeta toglie parole come noi dovremmo togliere gli orpelli inutili che ci hanno allontanato dalla vita autentica, e in questo deserto spiccano il vuoto di certe mitologie, i segni imprescindibili del nostro tempo fatto di miraggi, nausea, sofferenza, decisioni impossibili; per anni gli scrittori hanno immaginato il futuro, per anni hanno colorato la letteratura con utopie e distopie, e ora che siamo nel futuro non ci resta che constatare solo un malessere, quasi come se “essere” fosse diventato doloroso.

Ho trovato me stesso
fuggendo dall’abitato
restando vivo e invisibile
per tutto il tempo
riluttante alle tradizioni
ai mucchi sparsi di pedoni
pedine votate al massacro

Odio i loro costumi
il calco del vuoto
che chiamano moda
le vetrine della banalità
in cui si specchiano
per riconoscersi

Tanto non li sopporto
che neppure li maledico.

Camilletti tenta di trovare la salvezza, prova a tracciare una possibile strada. La povertà di parole rispecchia non soltanto quel deserto di emozioni, quella scarna umanità rimasta a brulicare nelle strade, ma anche l’idea rivoluzionaria per tentare di guarire. L’unica possibile oggi. Una rivoluzione fatta per sottrazione, che alcuni chiamerebbero decrescita, involuzione, ma che così non è. Non si tratta si tornare indietro, di tornare a vivere nelle caverne o come animali, non si tratta di sterili propositi, ma di compiere il tracciato di una parabola, la quale scende ma va più lontano. Spogliarsi di tutto quello che la società ci ha costruito addosso è difficilissimo. La società non è fatta di eremiti, e se lo fosse non sarebbe più una società. Il tema che affronta Camilletti è attualissimo e difficilissimo: il confine tra un emarginato e chi non si lascia avvelenare dalle costrizioni sociali è molto labile.

Crea il tuo borgo ideale
nel caos dell’ecumene,
rifuggi gli sguardi indiscreti
i facili abbagli
il tutto e subito
che non conosce disciplina

L’idea costruttiva che emerge dal libro mi ricorda la lezione del critico Giovanni Pozzi. Nel suo libro Tacet (Adelphi, 2013) avvertiva:

Viviamo in un’epoca in cui il silenzio è stato bandito. Il mondo è oppresso da una pesante cappa di parole, suoni e rumori.

E ancora:

Solo capace di solitudine è l’individuo che sa sottrarsi alla banalità quotidiana, il che comporta la fuga dal consorzio umano.

Ma Pozzi avvertiva quale fosse la maggiore insidia per colui che tende alla solitudine: il rischio di affogare il soggetto nell’oggettivazione di sé. Camilletti pare aver incorporato questa lezione: ritroviamo la cappa opprimente dei giorni in cui viviamo, la denuncia di quel vuoto assordante che ti fa sentire stufo di tutto, ma anche l’allontanamento, il distacco dal consorzio sociale, in un ritiro sereno, “verticale” (parafrasando ancora Pozzi), nel senso che il poeta non si chiude nella cella dell’eremita, ma cerca una dimensione di assenza che gli consenta di vivere, di trovare la disciplina per una vita nel segno della verità.

Non la quantità
Non la buona volontà
Cerchiamo luci
Pur sempre abbagli

Ognicosa scivola dalle mani
Nessun argine
La verità ci spoglia di tutto.

A cura di Valerio Ragazzini.

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