Estratti ed Inediti

Anteprima editoriale: “Una corsa al trotto non abolirà l’azzardo” di Alberto Bertoni | L’Altrove

Di cosa parliamo, oggi, quando parliamo di poesia

Nel contesto storico-sociale di oggi, la poesia è più importante leggerla che scriverla. Più importante ancora sarebbe imparare a leggerla, impresa difficilissima perfino per gli addetti ai lavori: infatti, se ognuno di noi conducesse un vero esame di coscienza, si accorgerebbe che nella suddivisione attuale del tempo quotidiano l’occasione per una lettura piena e liturgicamente concentrata risulta sempre più ristretta e difficile. La lettura infatti è spesso più ostacolata che favorita dal contesto nel quale ci si trova anche professionalmente ad agire: a maggior ragione se si svolge il mestiere di insegnante.

Leggere davvero una poesia (meglio precisare: una grande poesia) implica sempre un atto di riformulazione interiore e dunque di rilettura: e sollecita l’affinamento di una dote specifica (da applicare al linguaggio) di orecchio musicale e di competenza espressiva, retorica, metrica. La poesia è infatti un atto linguistico nel quale al significato referenziale degli enunciati si somma tutta una serie di strategie espressive che coinvolgono l’ordine delle parole, le strutture allitterative e fonosimboliche, la dislocazione degli accenti lungo il filo del discorso, gli effetti di parallelismo grafico e sonoro (rime, assonanze, consonanze), la suddivisione metrica che – in tempi di verso libero – tende a organizzarsi secondo un’accettabile suddivisione del recitativo, la qualità spiazzante dei cosiddetti tropi, che si danno quando il linguaggio sostituisce i termini propri con termini che provengono da campi semantici diversi rispetto a quelli che richiederebbe una logica consequenziale: metalessi, metonimie, sineddoche, soprattutto metafore.

L’effetto di queste energie aggiuntive rispetto al semplice “contenuto” del testo poetico (e letterario in genere) e alla sua organizzazione tematica hanno il fine di potenziare la parte emotiva, suggestiva e infine immaginativa propria del messaggio poetico. Lo dice già Leopardi, meglio di ogni altro, quando nell’Infinito elenca una serie di percezioni sensoriali, intessute di “spazi”, “silenzi”, “quiete”, concludendo “io nel pensier mi fingo”: in questa formula, risiede l’essenza stessa della compiuta ricezione poetica, affidata all’opera ri-creatrice dell’immaginazione individuale, esperienza somma di piacere, di condivisione e di trasformazione dell’emozione sensoriale in conoscenza, per una congiunzione finalmente compiuta di corpo e pensiero.

A questo punto poi, se uno affina il gusto e comincia a impadronirsi di una propria facoltà originale nell’uso della lingua di cui è parlante nativo e del codice poetico, allora anche scrivere la poesia potrà diventare un ottimo esercizio inventivo. L’importante è che chi si affida per questo fine e in questa chiave alla propria scrittura personale, sia poi molto prudente rispetto all’idea di voler subito pubblicarne gli esiti concreti, di credere di essere subito un poeta, di presupporre d’aver composto un testo capitale per la sopravvivenza dell’umanità. Tutti noi, come ha affermato di recente il Premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa (e, prima di lui, uno dei protagonisti del ’68 europeo, il situazionista Guy Débord) viviamo secondo la mentalità e i meccanismi un po’ pubblici un po’ subliminali di una società dello spettacolo, oggi espressa attraverso il proliferare apparentemente gratuito dei social media, e tutti ambiamo in primo luogo a soddisfare i nostri narcisismi, dando veste pubblica alle percezioni e ai sentimenti più immediati. La poesia vera, invece, non dà spazio ai narcisismi, è qualcosa che lotta ontologicamente contro il narcisismo.

Ma non solo: la poesia vera ha sempre una mira più o meno nascosta di conoscenza e di trascendenza, non è mai mera emozione. Anzi, si potrebbe parafrasare Rilke, affermando che la poesia è una colata d’amore che precipita a fecondare quell’insieme di enigmi che coincide con la nostra interiorità più autentica, se vogliamo più inconscia, quella – vale a dire – mai confessata neanche a noi stessi, gremita com’è di pietre d’inciampo, contraddizioni, abissi o sublimi declinati al negativo. Il leggere, in particolare, è l’antidoto migliore che io conosco (e che ogni giorno sperimento in dosi omeopatiche) contro narcisismo e superficialità. Al punto che, caso mai diventassi ministro dell’Istruzione, la mia riforma imporrebbe il ripristino di tutte quelle tecniche necessarie per migliorare la lettura: dettati, riassunti orali e scritti, parafrasi, poesie (soprattutto novecentesche, va da sé: al bando gli arcaismi inutili!) a memoria dalle elementari all’esame di maturità, letture ad alta voce…

L’AUTORE

Alberto Bertoni è nato a Modena nel 1955 e insegna Letteratura italiana contemporanea e Poesia italiana del Novecento nell’Università di Bologna. A lui si devono diversi saggi e volumi di argomento novecentesco. In particolare, conviene ricordare i cinque libri curati per le edizioni del Mulino fra il 1987 e il 2023. Per i “Meridiani” Mondadori ha curato nel 2010 l’edizione dei Romanzi di Alberto Bevilacqua. In poesia è autore fra l’altro di L’isola dei topi, pubblicato da Einaudi nel 2021 e vincitore del Premio Carducci 2021 e del Premio Pontedilegno 2022.

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