Il contemporaneo di nessuno, sulla poesia di Osip Ėmil’evič Mandel’štam | L’Altrove
Una poesia di Osip Mandel’stam inizia con la frase No, non sono mai stato contemporaneo di nessuno. Sì, egli nacque nel 1891 ma abitava in un mondo poetico in cui conversava con Dante e sedeva in riva al mare con Ovidio, in cui era tanto greco, romano e fiorentino quanto russo.
Osip era figlio di un commerciante di pelletteria ebreo e di un’insegnante di musica e crebbe a San Pietroburgo, dove le governanti francesi gli insegnarono a conoscere Napoleone e Giovanna d’Arco; da adolescente studiò in Francia, Germania e Italia, dove sperimentò le prime fitte di quella che in seguito chiamò “nostalgia della cultura mondiale”. La sua tenera e dolorosa preoccupazione per il passato lo distingueva in un’epoca ossessionata dal futuro.
La carriera poetica di Mandel’stam fu lanciata sotto l’egida del Simbolismo, un movimento che trattava il poeta come un mezzo che offriva l’accesso al lontano mondo del reale, che poteva essere percepito solo attraverso il velo della parafrasi. Per i simbolisti il linguaggio era una mera approssimazione: un mezzo piuttosto che un fine. Come altri simbolisti russi, Mandelstam fu molto influenzato dal poeta del XIX secolo Fyodor Tyutchev, che scrisse poesie metafisiche altamente ambigue prive di eroi lirici.
Intorno al 1912, Mandel’stam rinunciò al Simbolismo e si unì agli Acmeisti. I membri centrali includevano Anna Achmatova, che divenne sua amica per tutta la vita, e suo marito, Nikolai Gumilev. L’acmeismo cercò di usare la poesia per portare le parole all’apice del loro essere, racchiudendo tutta la storia culturale che la lingua portava con sé. Da quel momento in poi, l’obiettivo di Mandel’stam non fu tanto quello di creare qualcosa di nuovo quanto di ottenere una percezione più accentuata di ciò che già esisteva. In “Tristia”, una poesia del 1918 che prende il nome dalle epistole in versi che Ovidio scrisse in esilio sul Mar Nero, Mandel’stam proclama: “Tutto è stato visto, tutto sarà visto di nuovo, / solo il momento del riconoscimento è dolce”.
Mentre Mandel’stam rifletteva sull’eterno ritorno, molti dei suoi contemporanei cercarono di liberarsi di quelle che vedevano come le catene del vecchio linguaggio. Gli esperimenti artistici di questo periodo furono in gran parte iconoclastici: gettarono i classici dalla nave della modernità, come diceva il manifesto dei futuristi del 1917 “Uno schiaffo al gusto pubblico”. Il neologismo prosperava. Ma per Mandel’stam, “vecchio” contro “nuovo” era una falsa dicotomia e la resistenza del linguaggio era la fonte del potere e del piacere della poesia. Nel suo saggio del 1921, da Полное собрание sočinenij и писем в трех томах, scrive:
La poesia è un aratro, che rivolta la terra affinché gli strati profondi del tempo, la terra nera, vengano in superficie. Ma ci sono periodi in cui l’umanità, non soddisfatta del presente e nostalgica degli strati profondi del tempo, desidera come un aratore la terra vergine delle epoche passate. La rivoluzione nell’arte porta inevitabilmente al classicismo… Spesso si sente dire: va bene, ma appartiene a ieri. Ma io dico: lo ieri deve ancora nascere. Non è ancora realmente esistito…. Ciò che è vero per un poeta è vero per tutti. Non c’è bisogno di fondare scuole, non c’è bisogno di inventare la propria poetica.
Per Mandel’stam l’avanguardia era “un suicidio calcolato per curiosità”. Allo stesso modo respingeva l’orientamento teleologico del progetto sovietico. Aveva ragione anche riguardo alla rivoluzione che porta al classicismo. Negli anni ’30, appena un decennio dopo le affermazioni di Mandelstam, la cultura sovietica abbandonò l’avanguardia e abbracciò il realismo socialista, una sorta di aspirazionale classicismo marxista-leninista.
Una poesia composta nel maggio 1918 parla più o meno direttamente degli eventi a lui attuali, ma con un distacco filosofico, quasi ultraterreno: “Onoriamo il crepuscolo della libertà, fratelli, / onoriamo il potente anno del crepuscolo” Forse perché credeva che il passato sarebbe sempre ritornato, Mandelstam sembrò predire gli infelici risultati della rivoluzione russa, con inquietante preveggenza e rassegnazione soprannaturale.
Non denunciò la rivoluzione, come hanno fatto alcuni suoi colleghi; né lo fugge, come fecero molti dei suoi scrittori, artisti e intellettuali. Piuttosto denunciò il dominio da parte dello Stato sul linguaggio. Come scrisse in un suo saggio:
Nella vita della parola è iniziata un’era eroica. La parola è carne e pane. Condivide il destino della carne e del pane: la sofferenza. La gente ha fame. Lo Stato è ancora più affamato.
Parola, carne, pane sono tratti dai Vangeli, certo, ma qui non è Cristo bensì il linguaggio – un linguaggio trascendente che abbraccia anche il greco antico, il latino e l’italiano oltre al russo – a redimere i peccati dell’umanità attraverso la sua santa martirio. Lo Stato voleva possedere la lingua; nel giro di pochi anni avrebbe processato gli accusati di “ sabotatori linguistici” e perseguito gli autori di dizionari. Ma la poesia era anche un sostentamento segreto per molti sovietici.
Seguendo una logica tortuosa degna della teologia cristiana che contribuì a ispirare la sua opera, Mandel’stam rifiutava l’idea che la poesia possedesse “qualsiasi speciale corporeità, concretezza, materialità”. Richiedere queste qualità era mera “fame rivoluzionaria, l’impulso di un Tommaso dubbioso”.
Il poeta immaginava il rapporto tra parola e cosa come metempsicosi: “La parola viva non significa la cosa”, scrive, “ma sceglie liberamente come dimora una cosa o un’altra, un significato, una corporeità, una cosa amata”. E la parola vaga liberamente attorno alla cosa, come l’anima vaga attorno al corpo abbandonato ma non dimenticato”. Nella poesia del 1920 “Ho dimenticato la parola che volevo dire”, immagina le parole come ombre nel mondo sotterraneo di Omero , esseri eterni che scivolano dentro e fuori dalla vista e dalla memoria.
Mandel’stam smise quasi di scrivere poesie tra il 1926 e il 1930. Molti scrittori, tra cui Boris Pasternak e Babel, scoprirono che le loro “muse tacevano” nel tumulto dei primi anni sovietici. Ma il violento saggio satirico che scrisse (La Quarta Prosa) dopo essere stato messo alla berlina da scrittori partitisti, lo spinse a scrivere nuovamente poesie. Era stato attaccato non solo per le sue tendenze retrograde apparentemente dannose, ma anche per la sua irrilevanza, in altre parole, per il suo rifiuto di adorare sull’altare del futuro.
Le poesie degli anni ’30 erano pervase dalla violenza e dalla paura dell’epoca. Mandel’stam sapeva di non avere la ferocia o la forza bruta necessarie per sopravvivere e che il tempo avrebbe presto consumato anche lui. “Il secolo dei cani da lupo mi salta sulla schiena”, scrisse, “ma non ho lupi nel mio sangue… e sarò ucciso solo dai miei pari”. Ma la brutalità di queste poesie successive era pari alla gloria della natura:
Fammi vedere nessun codardo, nessuna melma appiccicosa,
nessuna ruota con ossa e sangue,
ma volpi argentate che brillano tutta la notte
con una grazia prima del diluvio.
Quasi nessuna delle poesie che Mandel’stam scrisse dopo il 1930 fu stampata mentre era in vita, sebbene pubblicò la sua opera in prosa Viaggio in Armenia. Visse in povertà, spostandosi da un’abitazione temporanea all’altra. Nel 1933, durante la carestia causata dalle politiche di collettivizzazione di Stalin, visitò la Crimea, la sua amata Tauris, e fu testimone di alcuni degli orrori della fame, un’esperienza riflessa in alcune sue opere. Quel novembre, infatti, scrisse una poesia politica insolitamente schietta, Viviamo senza sentire il paese sotto di noi è stata spesso definita l’Epigramma a Stalin. Recitò l’epigramma agli amici, per questo fu arrestato ed esiliato, prima negli Urali, dove saltò dalla finestra di un ospedale, e poi a Voronezh, a sud-est di Mosca. In questo periodo produsse i Quaderni di Voronezh, il punto culminante della sua produzione poetica.
Nel maggio 1938, non molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, fu nuovamente arrestato. Questa volta fu mandato nei campi di lavoro nell’estremo oriente russo. Morì quell’inverno, ancora in un campo di transito. La sopravvivenza della sua poesia fu possibile grazie all’opera della moglie, che la conservo e diede alla stampe grazie all’aiuto di alcuni amici.