Estratto da “La cenere e l’oceano” di Francesco Catalano | L’Altrove
Ci si potrebbe chiedere, in effetti, quale sia il motivo che spinge alcuni giovani autori, tra cui anche Francesco Catalano, a esordire con un libro di versi, oggi. E forse la risposta sta proprio in questo: esiste ancora chi si interroga sul senso e sul ritmo, chi si mette in cerca di una parola che sia in grado di fare luce. Francesco Catalano ha scelto di porsi queste domande attraverso la poesia, ricercando, nel ritmo di un verso piano e narrativo, una tensione descrittiva e insieme moderatamente lirica, capace di restituire un piccolo affresco di una quotidianità disincantata e proiettata verso il confronto con l’altro e con l’altrove.
Dalla prefazione di Federico Carrera
Transumanza
Ristagna intorno un’aria consumata,
mentre un autobus mi trasferisce da un posto all’altro.
I sedili sono stretti, corpi estranei si toccano,
fuori fotogrammi che non fanno in tempo a comparire.
Sono stati fisici eterogenei: un muoversi
indifferente come un dito sulla cartina
con la sparizione di quello che è in mezzo.
È come essere lanciati fuori
nella perdita del contatto:
l’autobus potrebbe muoversi tra gli Appennini
come in qualche altopiano delle Ande.
Bastano un clima umido e appiccicoso
e l’impenetrabile sottobosco di montagna.
Il viaggio, nelle sue forme, è cambiato:
non vale ormai come il tempo vuoto di attesa
[all’aeroporto?
Siamo corpi in continuo trasferimento.
Detriti corporei
La carne nuda contro l’asfalto su polvere e pietrisco
tutto lucidamente grigio lucente acciaio, fastidioso.
L’attrito ruvido tra i corpi estremo fino all’abrasione,
arti in massa coinvolti, esplosioni di arterie,
l’accettazione obbligata di una fine anormale.
La fine è sopravvalutata, può essere abbandono
caduta nera nel vuoto senza ornamenti,
libera e totale nella sua assoluta nullità: oblio.
Una donna si allontana di spalle, nuda,
con detriti sulla pelle su uno sfondo notturno,
la luce della luna riflessa sul fiume,
nessuna vita intorno, qualche rottame che rotola via,
poi quel corpo di donna scomparire in una luce
argentea, meccanica, metallica.
Vuoto di cartone
Non ho trovato quei ricordi
che mi dicevi di cercare.
Ho provato a rovistare in fondo ai cassetti,
tra gli scatoloni rimasti in soffitta,
ma ho riconosciuto poche cose:
la maggior parte mi è ignota, parla
una lingua diversa e mi sembrano cianfrusaglie
accumulate da una svendita di un bazar.
È rimasto il salotto invaso da cartone
con pochi cumuli di vita sparsi qua e là
che sembrano gorgogliare sillabe sconnesse
dentro il moto impercettibile ma costante
delle particelle che non hanno mai una tregua.
Il moto cercato era però un altro,
oltre la sopravvalutata funzione biologica
verso un sussulto elettrico sprofondato.
Lineamenti futuri
Me lo immagino più o meno
così, come sullo schermo:
il tuo taglio degli occhi
tanto stretto e allungato
anche le tue labbra affusolate
forse il mio naso tondo
e tanti capelli mori arruffati.
Nella mia mente ci sono
tanti tratti tuoi, pochi miei.
Da me forse il carattere
più testardo e permaloso
con tocchi sparsi di gentilezza.
Vedo le liti, i lunghi silenzi
ma anche i sorrisi tanto larghi.
Ci ho messo la risata
di quando tu eri bambina,
così genuina e leggera.
Ci metterò altre cose
quando tornerà a farmi visita
tra fotogrammi in bianco e nero
o nelle sfumature frastagliate
del tramonto in cui è bello
vagare sprofondare affogare.
L’aderenza dell’affetto
Tra i quadri della tua camicia
c’è il sentimento di casa.
Le altre volte è come galleggiare
stati di fluidità diversi:
difficile sentire la terra
veramente, con le radici.
La mia mente associa ormai
quel tuo profumo naturale
alla serenità, la rilassatezza,
è un poter abbassare la guardia.
Com’è bella l’immagine di te
stesa sul prato, in primavera,
un leggero vento a muoverti
i capelli, il sorriso, un vestito
di quelli che porti con tanta grazia,
col mio sguardo che ti vede
dal basso, poi apri gli occhi,
ti alzi leggermente, ti fermi contro
il mio guardare e gli occhi dicono
tutto quello che devono dirsi.
Aforisma sulla vecchiaia
Parlavo con un vecchio del paese,
si lamentava di dormire poco la notte.
“Non dovresti lamentarti” disse un altro poco dopo
parlando della luce, di come si è fortunati
se è possibile vederla anche qualche ora in più.
Poi svelò la sua teoria, pressappoco così:
“Invecchiando si dorme di meno
per allontanare ciò che di più simile
c’è alla morte”. Rimanere attaccati con le unghie,
per dormire ci sarebbe stato tempo.
Lo aveva letto in qualche vecchio romanzo.
L’AUTORE
Francesco Catalano, nato a Novafeltria (PU) nel 2000, si è diplomato presso il “liceo scientifico Tonino Guerra” (RN) e si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Bologna con una tesi sulla poesia contemporanea dal titolo “Le maschere e i ritratti di Maurizio Cucchi: una ‘autobiologia’ per interposte figure”. Attualmente è studente di Italianistica presso il medesimo ateneo.
Alcuni suoi testi poetici sono stati pubblicati su “Repubblica – Milano” e il suo primo libro di poesia, “La cenere e l’oceano”, è stato edito da Edizioni Effetto. Appassionato di cinema, dirige “Solaris”, un blog d’approfondimento sulla settima arte.
Crediti dell’autore della fotografia: Luisa Di Lieto