Poesie ritrovate

Poesie ritrovate: Hilde Domin | L’Altrove

Dalla pubblicazione della sua prima raccolta, Only a Rose for Support (1957) in poi, Hilde Domin, nata il 27 luglio 1909 e morta all’età di 96 anni, vinse quasi tutti i premi letterari e culturali tedeschi, compresi i premi Rilke, Nelly Sachs e Hölderlin. In un’era di prosa, la sua poesia distintiva raggiunse rapidamente lo status di classico moderno nella sua terra natale. Diretto e semplice in modo affettuoso, il suo lavoro suscitò un raro calore di risposta emotiva oltre gli angusti confini dell’accademia. “Un rifugiato dall’est”, scrisse una volta, “può riconoscersi nelle mie poesie tanto quanto un intellettuale”.

Indubbiamente, la sua storia di vita ha contribuito a questo ampio fascino. Figlia di un avvocato, Hilde Löwenstein è cresciuta in una ricca famiglia ebrea a Colonia. All’università di Heidelberg e Berlino, tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30, ebbe la fortuna di studiare con gli eminenti sociologi Karl Jaspers e Karl Mannheim, e anche di incontrare Erwin Walter Palm, un giovane filologo emergente.

Nel 1932, l’anno prima che i nazisti prendessero il potere in Germania, lei e Palm si trasferirono in Italia, dove vissero a Roma ea Firenze. Nel 1935 completò il dottorato in politica rinascimentale e un anno dopo lei e Palm si sposarono; è stato l’inizio di oltre 50 anni felici insieme. A quel tempo, sembravano sicuri di brillanti carriere accademiche.

L’avvento della guerra, però, cambiò tutto. Hilde e suo marito fuggirono, inizialmente in Inghilterra, dove insegnarono nel 1939-40. L’offerta del sonnifero Veronal da parte di un medico inglese, con il suggerimento di non farsi catturare dai nazisti, li convinse ad andare più lontano, e così si stabilirono a Santo Domingo, la capitale della Repubblica Dominicana, dove Hilde lavorava all’università.

Questa fu una fase decisiva della sua vita: scrisse di essere “nata” solo nel 1951, quando la morte della madre scatenò le sue prime poesie e assunse il nom-de-plume Domin per onorare la patria che l’aveva salvata. Non può, tuttavia, essere classificata tra i numerosi scrittori tedeschi dell’esilio, perché fu solo al suo ritorno in Germania nel 1954 che la sua peculiare identità poetica iniziò a prendere forma. In effetti, le sue poesie conservano un senso di ottimismo seducente e ingenuo, catturato nella famosa descrizione di Hans-Georg Gadamer di lei come la “poetessa del ritorno a casa”.

Domin fu una presenza pubblica infaticabile, seguendo il suo stesso consiglio “di non stancarsi/ ma di tendere la mano/ al miracolo/ dolcemente, come a un uccello”. Dando letture all’infinito fino ai suoi 90 anni. Le sue letture erano eventi popolari e coinvolgenti: aveva l’insolita ma persuasiva abitudine di leggere sempre le sue poesie due volte, in modo che avessero il tempo di depositarsi adeguatamente nell’orecchio dell’ascoltatore, e le sue inevitabili interpolazioni sul contesto biografico della sua opera non mancavano mai di affascinare.

La sua vita e il suo lavoro furono inscindibilmente intrecciati, come più volte sottolineò nei suoi vari saggi autobiografici: “Quasi un’autobiografia” è il suo caratteristico sottotitolo per queste raccolte di brani in prosa.

Divenne anche un’importante critica della letteratura contemporanea, tenendo lezioni incisive sulla teoria e lo scopo della poesia e interagendo con molti dei più importanti scrittori del dopoguerra. La sua corrispondenza – in particolare con la vincitrice del Premio Nobel Nelly Sachs – e il suo patrimonio letterario, destinato all’Archivio letterario nazionale tedesco di Marbach am Neckar, continueranno senza dubbio a far discutere.

Certamente credette nell’importanza del dibattito pubblico, scrivendo incessantemente lettere e intervenendo negli affari letterari, curando, ad esempio, l’influente antologia Double Interpretations (1966), in cui ha dato ai poeti contemporanei la possibilità di rispondere a una valutazione critica del loro lavoro. La sua ultima raccolta di poesie, The Tree Still Blossoms (1999), risponde a 50 anni della sua stessa poesia con la duratura miscela di ottimismo e sfida così caratteristica del suo miglior lavoro: “Sempre gli alberi sono sbocciati / anche per le esecuzioni”.

Domin non fu esente dalla vanità artistica o dal senso della propria importanza; in effetti, la sua imperiosità era una parte centrale della sua leggenda. Eppure poteva anche essere coinvolgente in modo disarmante: i visitatori del suo appartamento pieno di libri vicino al vecchio castello in alto sopra Heidelberg sarebbero invariabilmente affascinati dalla sua combinazione di innocenza fanciullesca e pettegolezzi stagionati. Era orgogliosa dei suoi successi e non aveva paura di dirlo, eppure ha conservato fino alla fine un piacere per la giovinezza e un interesse per il mondo moderno. L’ultima onorificenza, pochi mesi prima della morte, le fece particolarmente piacere: l’assegnazione della più alta onorificenza civile della Repubblica Dominicana.

Affettuosamente, il possesso più orgoglioso di Domin non era uno dei suoi numerosi riconoscimenti o premi, ma una modesta colomba di legno appesa nell’angolo della sua camera da letto, un simbolo dell’ottimismo e della ricettività che la sua poesia cercava di trasmettere. “Vorrei essere lacerata dalle cose che vedo”, scriveva, “come da un fulmine”.

In Italia la poesia di Hilde Domin è stata tradotta e pubblicata dalla Casa Editrice Del Vecchio nei volumi Con avallo delle nuvole, Lettera su un altro continente, Il coltello che ricorda, Alla fine è la parola.

La ricordiamo con una selezione di sue poesie

Poesie di Hilde Domin

Parole

Le parole sono melagrane mature,
cadono a terra
e si aprono.
Tutto l’interno si volge all’esterno,
il frutto denuda il proprio segreto
e mostra il suo seme,
un segreto nuovo.


Paesaggio in movimento

Si deve saper andare via
e tuttavia essere come un albero:
come se le radici rimanessero nel terreno,
come se il paesaggio si muovesse e noi restassimo fermi.
Si deve trattenere il fiato,
finché si calma il vento
e l’aria estranea inizia a girarci intorno,
finché il gioco di luci e ombre,
di verde e di blu,
crea gli antichi disegni
e siamo a casa,
ovunque essa sia,
e possiamo sederci e appoggiarci,
come se fossimo alla tomba
di nostra madre.


Con l’avallo delle nuvole

per Sabka

Ho nostalgia di una terra
in cui non sono mai stata,
dove tutti gli alberi e i fiori
mi conoscono,
dove non vado mai,
dove però le nuvole
si ricordano bene
di me,
straniera,
che non ha casa in cui piangere.
Vado
verso un’isola senza porto,
butto in mare le chiavi
già alla partenza.
Non arrivo da nessuna parte.
La mia tela è come una ragnatela al vento,
ma non si strappa.
E oltre l’orizzonte,
dove i grandi uccelli
asciugano le ali al sole
alla fine del volo,
c’è una terra
dove mi si deve accettare
senza passaporto,
con l’avallo delle nuvole.


La corda dorata

Niente è così fugace
quanto l’incontro.

Giochiamo come bambini,
ci invitiamo e ce ne andiamo
come se avessimo per sempre tempo.
Scherziamo con gli addii,
collezioniamo lacrime come biglie
e proviamo se i coltelli tagliano.
Ecco che chiamano
il nome.
Ecco che finisce
l’intervallo.

Ci reggiamo
impauriti
alla corda dorata
e ci opponiamo alla partenza.
Ma si lacera.
Spinti lontano:
via dalla stesa città,
via dallo stesso mondo,
sotto la stessa
terra,
che tutto confonde.


Inarrestabile

La propria parola
chi la riporta indietro,
la parola
viva
non ancora pronunciata?

Dove vola la parola
si seccano i prati,
ingialliscono le foglie,
cade la neve.
Un uccello tornerebbe da te.
Non la tua parola,
quella ancora non detta,
nella tua bocca.
Le altre parole le rimandi
indietro,
parole con soffici piume colorate.
La parola è più veloce,
la parola nera.

Arriva sempre,
non smette mai di
arrivare.

Meglio un coltello di una parola.
Un coltello può essere poco affilato.
Un coltello molte volte
manca il cuore.
La parola no.

Alla fine è la parola,
sempre
alla fine
la parola.

Da Con l’avallo delle nuvole, Del Vecchio Editore.

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