Nasceva oggi: Amy Clampitt | L’Altrove
Amy Clampitt nacque a New Providence, Iowa, il 15 giugno 1920. Studiò prima al Grinnell College di Grinnell, successivamente alla Columbia University e alla New School for Social Research di New York City. Durante gli anni ’40 e ’50, Clampitt svolse vari lavori presso editori e organizzazioni come la Oxford University Press e la Audubon Society. Negli anni ’60 rivolse la sua attenzione alla poesia. Nel 1974 pubblicò un piccolo volume di poesie intitolato Moltitudes, Multitudes; da allora in poi il suo lavoro apparve frequentemente nel New Yorker. Dopo la pubblicazione del suo libro di poesie The Kingfisher nel 1983, divenne una delle poetesse più apprezzate d’America.
Le sue altre collezioni includono A Silence Opens (1994), Westward (1990), What the Light was Like (1983), Archaic Figure (1987). Clampitt ricevette delle borse di studio dalla Guggenheim Foundation, dalla MacArthur Foundation e dall’Academy of American Poets. Membro dell’American Academy of Arts and Letters, insegnò al College of William and Mary, all’Amherst College e allo Smith College.
L’improvviso successo della poeta dopo la pubblicazione di The Kingfisher fu definito come uno dei debutti più sbalorditivi della memoria recente. Il libro ricevette diverse recensioni positive: “Questo libro generoso, il suo spirito, la sua sensibilità e il suo elegante gioco di parole raramente deludono”.
Amy Clampitt scrisse una poesia bellissima e faticosa. In essa, il pensiero si srotola e si avvolge di nuovo, incarnando il suo perpetuo argomento con se stesso. È per molti versi una performance quasi abbagliante. I suoi sono versi di una rara ricchezza allusiva e raffinatezza sintattica, caratterizzati da una profusione barocca, da sintassi labirintica e da un lessico particolare ed elaborato. La poeta sembra suonare la lingua inglese come uno strumento musicale con una capacità sorprendente e deliziosa di creare metafore.
Il lavoro di Clampitt è caratterizzato anche da allusioni erudite, per le quali fornisce dettagliate note a piè di pagina, una tendenza simile la troviamo nel lavoro di Marianne Moore. È letteraria e allusiva come Eliot e Pound e descrittiva come Marianne Moore.
La ricordiamo oggi con un alcune sue poesie:
Le erbe
Ondulante attraverso i pendii
una vernice di viola
giorno per giorno arriva a smorzare
il verde, mentre le erbe
i cui nomi non ho mai imparato –
innumerevoli, profetici,
transitori – mettono in scena una fioritura
così multiforme che viene notata
a malapena: le avene crescono alte,
i loro caschi pendenti carichi
di cumuli di mica, esaminati stelo
a stelo, rivelano
leghe così svariate, smaltature
di un vermeil così
privo d’arte, sto per disperare di
mettere mai le redini a
una metafora: anche ogni bruttina
punta di cono di una plebea
piantaggine da marciapiede
merita un’aureola, un serafico
nastro di garanzia che
il morire, per
gli illetterati, i massificatamente,
fondamentalmente bassi,
è senza significato, è niente
se non la fioritura
col suo sciame di rassicurazioni d’una
resurrezione ancora.
Meriggio
La prima luce del giorno sul portico dormiente,
dolce-amaro-pensile in piena estate: rugiada
su tutta l’erba, a cucire ombre
dai riflessi fatti con punte di diamante:
l’ombra del bracciante che si aggira
lungo il vialetto, un bagliore di latte in secchi
che passa: nessuna minaccia visibile, nessun indizio
in alcuna parte dell’universo, di quella
apatia al meriggio, il mezzogiorno
di noia assoluta: le mosche
che canticchiano ninnananne nere in cucina,
brocche di latte inacidite, la scrematrice
ancora non lavata: che c’è nella vita
se non mestieri e ancora mestieri, sciacquatura di piatti,
fatiche, figli non voluti: niente
che possa rimestare il languore del pomeriggio
tranne, forse, le nuvole da temporale:
in salita, livide, alabastro turrito
illuminato dall’interno di splendore e terrore
– il mezzo-secondo disastroso
di fulmine forcuto.