Le poesie francesi di Alejandra Pizarnik, tra amore e terrore | L’Altrove
La tua popolarità segreta abita i balconi del Quartiere Latino, scrisse il celebre scrittore Julio Cortázar ad Alejandra Pizarnik nel 1965.
La Pizarnik, appena ventinovenne, aveva pubblicato la sua quinta raccolta di poesie, Los trabajos y las noches.
L’ammirazione di Cortázar non era unica. La poesia della Pizarnik aveva commosso e perseguitato i suoi contemporanei, tra cui Silvina Ocampo, Simone de Beauvoir e Octavio Paz. Lo scrittore surrealista francese André Pieyre de Mandiargues una volta le scrisse: “Sono innamorato delle tue poesie: vorrei che tu ne scrivessi tante e che diffondessero ovunque amore e terrore”.
Le ossessioni di Alejandra – morte, oscurità e desiderio – attraversavano il suo lavoro, a volte in modo netto. “Il desiderio di morire è sovrano”, scrive nella sua breve poesia Revelaciones (Rivelazioni).
Ma sono le poesie che scrisse in francese che rivelano le sue inquiete ossessioni. Una venerazione iniziata presto quella per la lingua francese. Al liceo, Alejandra leggeva in francese, studiava in francese e ammirava la poesia francese. Leggeva Albert Camus e Marcel Proust nella loro lingua madre. Le stimate scuole argentine erano impegnate in un curriculum francofilo e anche in casa il padre di Pizarnik suonava musica francese. Questa inclinazione si sviluppò con la grande ondata di immigrazione europea in Argentina tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo – la stessa ondata che portò i genitori di Pizarnik – aumentò notevolmente la popolazione del paese e gli diede un aspetto europeo.
“Devo andare in Francia. Ricordalo.”, scrisse a se stessa in un taccuino nel 1959, quando aveva ventitré anni. “Ricordati che questa è l’unica cosa che resta da desiderare, in questo mondo vasto e profondo”. Nel 1960, vi andò e vi rimase quattro anni.
Parigi fu a lungo una delle destinazioni preferite dagli artisti. Una rapida occhiata alle biografie di alcuni dei grandi scrittori europei, latini e nordamericani del secolo scorso rivela, il più delle volte, un unico faro, una destinazione comune: una città impareggiabile ricercata per la sua atmosfera bohémien scena culturale artistica. Negli anni ’20, Parigi era quella città, con Ezra Pound, James Joyce, Gertrude Stein, Ernest Hemingway e decine di altri artisti che vivevano lì.
La Pizarnik incontrò anche i surrealisti Georges Bataille, Jean Arp e Max Ernst. Ma anche Cortázar, Beauvoir e John-Paul Sartre. Si trovò d’accordo con Marguerite Duras, che aveva appena scritto la sceneggiatura di Hiroshima mon amour. Per molti versi, stare a Parigi fu un bene per lei, poiché la città la mise in stretto contatto con alcuni dei più grandi scrittori e artisti del suo tempo. In altri modi, Parigi probabilmente esacerbò il suo declino.
Quando arrivò, la poeta era già dipendente dalle anfetamine. La sua poesia è stilisticamente inseparabile dal suo uso di droghe.
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I suoi versi mostrano un movimento quasi allucinogeno tra dettagli e grandiosità astratta, come nel suo poema in prosa francese Il sesso, la notte:
[…] Inutilmente il desiderio versa su di me un liquore maledetto. Per la mia sete assetata, cosa può la promessa di uno sguardo? Parlo di qualcosa che non è di questo mondo. Parlo di qualcuno che ha il suo scopo altrove.
Ed ero nuda nel ricordo della notte bianca. Ero ubriaca e ho fatto l’amore tutta la notte, esattamente come una cagna malata.
A volte si riconosce troppa realtà nello spazio di una notte sola. Ci si spoglia, e si è presi dall’orrore. Si sa che lo specchio suona come un orologio, lo specchio da dove nascerà il grido, la tua ferita.
Sebbene le poesie francesi della Pizarnik possano essere meno dirette di quelle che scrisse in spagnolo – è improbabile che abbia scritto le poesie francesi pensando alla pubblicazione – forniscono una testimonianza del suo fascino per lo spazio tra lingue e luoghi, tra corpo e mente e tra il desiderio e la sua consumazione. I suoi testi francesi mostrano anche molti dei suoi motivi distintivi: il corpo, il silenzio, la notte, la follia, gli specchi e la morte. Il francese era la terza lingua di Pizarnik (parlava anche yiddish) e la sua poesia francese generalmente non è così precisa o raffinata come il suo lavoro in spagnolo. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che non ha mai rivisto o corretto le sue poesie francesi. Sono quasi come istantanee delle sue ossessioni in via di sviluppo e della sua lotta per catturarle in versi.
Poco prima di partire per Parigi, Pizarnik confida nel suo diario: “Vorrei vivere per scrivere. Non pensare ad altro che a scrivere. Non cerco l’amore né il denaro. Non voglio pensare né costruire decentemente la mia vita. Voglio la pace: leggere, studiare, guadagnare un po’ di soldi per essere indipendente dalla mia famiglia e scrivere”.
Anche se le anfetamine non le hanno dato pace, e anche se hanno avuto un impatto devastante sulla sua salute, a quanto pare le droghe la aiutarono a scrivere. La tenevano sveglia e acuivano la sua concentrazione.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Nonostante le sue condizioni fisiche compromesse, la Pizarnik scrisse in modo prolifico, sia in spagnolo che in francese, durante i suoi anni parigini, il quale fu il suo periodo più produttivo.
Nel 1962 pubblicò il suo quarto libro di poesie, Árbol de Diana (L’albero di Diana), una raccolta che conteneva una prefazione del suo amico (e futuro vincitrice del premio Nobel) Octavio Paz. Fu un punto di svolta. Il mito della Pizarnik la Pizia, la poetessa sacerdotessa, la visionaria, veniva esposto.
Eppure la sua vita a Parigi fu più vicina a quella di una girovaga che a quella di un oracolo. Cambiò indirizzo almeno cinque volte durante i suoi primi due anni in città. In Alejandra, Antonio Requeni, ricorda di averla aiutata a trasferirsi da un hotel in Boulevard Saint-Michel a un altro. “C’erano più medicine che valigie”, dice. “Li prendeva per svegliarsi, per andare a dormire, per stare bene, per stare male, per tutto, era così”. “Non poteva affrontare la vita di tutti i giorni, quindi era come una bambina indifesa”, diceva altresì la sorella.
Anche le relazioni di Alejandra Pizarnik con altre scrittrici, come Silvina Ocampo, Olga Orozco e Cristina Campo, svolsero un ruolo fondamentale, anche se complicato, nella sua vita emotiva, forse anche più delle sue relazioni intime con gli uomini.
In una poesia a Cristina Campo scrive:
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
Nel 1964, fece ritorno a Buenos Aires. La sua permanenza a Parigi ringiovanì il suo interesse per la scrittura in spagnolo e smise di scrivere in francese. Era però in cattive condizioni psicologiche e fisiche. Ad acuire questa sua condizione fu anche la morte del padre di Pizarnik “Morte senza fine, dimenticanza del linguaggio e perdita delle immagini. Come vorrei essere lontana dalla follia e dalla morte”, scrisse Pizarnik nel suo diario. “La morte di mio padre ha reso la mia morte più reale… sto lentamente asfissiando”. Il lavoro di Pizarnik, che si era spostato verso la poesia in prosa, divenne sempre più angosciato. Come scrive Pizarnik in Estrazione della pietra della follia:
[…] Scrivere è cercare nel tumulto dei bruciati l’osso del braccio corrispondente all’osso della gamba. Miserabile mistura. Io restauro, io ricostruisco, io cammino cosí circondata di morte.
E ancora:
[…] Visione luttosa, squarciata, di un giardino con statue rotte. Al filo dell’alba le ossa ti dolevano. Tu ti squarci. Ti avverto e ti ho avvertito. Tu ti disarmi. Te lo dico, te l’ho detto. Tu ti denudi. Ti spossessi. Ti disunisci. Te l’ho predetto. A un tratto si è disfatta: nessuna nascita. Ti porti, ti sopporti. Solamente tu sai di questo ritmo spezzato. Ora le tue spoglie, raccoglierle a una a una, una gran seccatura, dove lasciarle. Se l’avessi avuta vicina, avrei venduto la mia anima a patto di invisibilizzarmi. Ubriaca di me, della musica, delle poesie, perché non ho detto del buco dell’assenza. In un inno straccione rotolava il pianto sulla mia faccia. E perché non dite niente? E a che scopo questo grande silenzio?
Poco dopo vinse la Guggenheim Fellowship e partì per New York. La città era “feroce e morta”, scrisse alla sua amica Ivonne Bordelois. “Ogni notte rimango sveglio con l’idea da incubo che non potrò lasciare gli Stati Uniti. Qualcosa mi impedisce di andarmene e rimango lì per sempre”. Successivamente tornò a Parigi, forse sperando di ritrovare parte dell’energia che aveva già ispirato il suo lavoro precedente. Ma questo nuovo viaggio la delusa e forse segnò l’inizio della fine. Fece ritorno a Buenos Aires in uno stato disperato. In una lettera alla Ocampo, scrisse:
[…] E adesso piango. Sylvette, guariscimi, aiutami… non farmi morire.
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Nel 1972, dopo un periodo di depressione andò in overdose di Seconal all’età di 36 anni.
In quasi due decenni di scrittura, produsse sette raccolte di poesie e un libro in prosa. Rimane ancora oggi una figura di culto, anche se la sua reputazione è cresciuta negli ultimi anni quando l’editore americano New Directions presentò il suo lavoro al pubblico di lingua inglese. Insieme ad altre scrittrici argentine come Ocampo e Norah Lange, Alejandra Pizarnik sta ora ricevendo l’attenzione che è storicamente riservata ai suoi connazionali Cortázar e Borges.
Che sia in spagnolo o in francese, a Buenos Aires o a Parigi, la sua voce rimane quella dell’eterna emigrata che cercava una casa ma non la trova. Alejandra Pizarnik scrisse nel modo in cui viveva: in uno stato di irrequieto desiderio.