Nasceva oggi

Nasceva oggi: Pietro Bigongiari | L’Altrove

Nasceva oggi il poeta e critico letterario italiano Piero Bigongiari.

Piero Bigongiari nacque a Navacchio nel 1914, dopo essersi trasferito a Pistoia con la famiglia frequentò il liceo classico e, dopo il diploma, si trasferì a Firenze dove frequentò la facoltà di Lettere e si laureò discutendo una tesi su Leopardi. Nel capoluogo toscano strinse amicizia con altri studenti che con lui condividevano la stessa passione per la poesia e che risulteranno fondamentali nella sua carriera letteraria come Roberto Carifi, Carlo Bo e Alfonso Gatto.

Bigongiari fu uno dei più significativi poeti della Firenze moderna ed è stato il primo nella cosiddetta terza generazione di ermetici, al fianco di Mario Luzi (1914-2005) e Alessandro Parronchi (1914-2007). Sfortunatamente, però, il suo nome non è conosciuto come dovrebbe essere.

La sua attività letteraria iniziò verso il 1937 entrando a contatto con i maggiori letterati dell’epoca (Montale, Gadda, Vittorini) e collaborando con le principali riviste italiane come Solaria e Campo di Marte.
Nel 1942 pubblicò il suo primo libro di poesie, La figlia di Babilonia. Nello stesso anno ebbe inizio la sua amicizia con Giuseppe Ungaretti.
Fu anche traduttore dei testi di Rainer Maria Rilke, Dylan Thomas e René Char e saggista.

Capire l’influenza di Giacomo Leopardi su Piero Bigongiari è un buon punto da cui partire per apprezzare altri elementi della sua opera, poiché rivela le ragioni centrali per cui la sua poesia diventò così com’è. Il poeta si ispirò alle opere di Leopardi per tutta la vita, dagli anni ’30 quando si affermava la sua tesi universitaria su Leopardi, agli anni ’60 e ’70 quando pubblicò due edizioni di una monografia, fino agli anni ’90, quando nell’ultima fase della sua vita arrivò a pensare al suo “precoce leopardismo” giovanile come a una sorta di destino.

Dagli anni ’80, tuttavia, ci furono diverse edizioni critiche riguardo il collegamento tra la poetica di Leopardi e quella di Bigongiari, ma non solo. Queste suggeriscono inoltre su come questa abbia legami con tutta quella della terza generazione.

Bigongiari fu l’unico ad articolare una visione coerente di ciò che Leopardi significava per i suoi contemporanei. Lo considerava l’origine di una concezione contemporanea di poiesis, trattando l’arte come una visione del mondo in cui il significato non era determinato da preconcetti formali o filosofici, ma era perseguito e negoziato dalla stessa parola poetica.

Fin dai suoi primi scritti nei primi anni ’30, l’intuizione di Bigongiari fu quella di catturare un senso di esistenza nel passare del tempo, rispecchiare le preoccupazioni in dispiegamento e le verità in evoluzione del soggetto umano e preservare le fasi mutevoli delle emozioni. La sua poesia si dispiega in un fitto arazzo di temi e variazioni che si fondono, in cui parole, frasi, immagini e persino intere situazioni particolari vengono ripetute e sviluppate su molte singole poesie. Qualsiasi apparenza di disegno narrativo o linguistico è un’illusione. Possono anche esserci correnti di pensiero continue, ma sono improvvisate, sviluppandosi secondo le preoccupazioni del momento.
L’ispirazione, tuttavia, non risiedeva nella trattazione del linguaggio o nel contenuto emotivo della poesia leopardiana, ma nell’apparente capacità del suo istinto compositivo di adattarsi, e trovare sostanza simbolica anche nelle circostanze più desolate e apparentemente insensate. Bigongiari riconosceva naturalmente che la trasformazione fondamentale alla base dell’opera di Leopardi era la discesa di una coscienza poetica, che un tempo trovava conforto nella possibilità immaginativa, in un’atmosfera di disgusto e disperazione.

Durante il secondo conflitto mondiale la sua promettente reputazione fu eclissata; gli avvenimenti storici e una prolungata crisi esistenziale, provocarono una totale trasformazione del suo sguardo e del suo stile. Bigongiari si sentì in dovere di mettere in discussione il merito della sua vocazione, cercando continuamente, e spesso disperatamente, modi per mantenere la sua scrittura in stretto contatto con le realtà umane interiori di base e sentiva di non raggiungere gli argomenti politici e ideologici in competizione del momento. Percepì allora un’esigenza di discorso diretto, esistenziale, il bisogno di poesia che sarebbe servita a non a trascendere il mondo immediato, ma a catturare le verità conosciute vivendo in esso.

A labbra serrate

Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare
come un disco pieno di propositi,
e questo cielo senza vittoria per nessuno,
le mani calde, la bocca amara d’amare.

Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti,
inutile cercarvi, voi uomini della terra,
per la troppa terra che nasconde il vostro cielo,
solo vostro è il cielo per cui soffriamo tutta la terra.

Tutta la terra e gli errori penosi perché piccoli,
le stragi come muri d’argilla a ridosso dei quali ci ripariamo,
con un fazzoletto scarlatto asciughiamo il sangue per non vederlo
con uno bianco le lacrime per non piangere.

Con un passo più lungo commettiamo la stanchezza, a che cosa?,
la rosa in un vortice repentino scopre la primavera in un deserto
e le stagioni si salvano dai cannoni ma non dagli sguardi degli uomini
che forse esistono sulla terra per uno scompenso di menzogne
come il vento in un dislivello barometrico.
Asciughiamo le lacrime anche con le parole,
con la fucileria più fitta, con gli amici che salgono le scale.
E inventiamo d’andare a letto, per inventare qualcosa,

mentre sentiamo che la vita divarica dalla morte
veramente, non c’è dubbio, ma siamo stanchi lo stesso,
come quando stanchi della musica ascoltiamo solo gli strumenti.

15 aprile ‘44

Anche il simbolismo francese fu l’idioma che Bigongiari e molti dei suoi contemporanei adottarono inizialmente come loro ideale. I modi in cui Mallarmé, Baudelaire e Rimbaud trattavano la poesia come un’estensione del desiderio e dell’esperienza erano attraenti perché dotavano le parole stesse di una percezione formale del processo creativo. Le prime poesie di Bigongiari sono vive di questa interconnessione di espressione e di pura intensità dell’esistere.

La poesia per Bigongiari rappresentò quindi una coraggiosa ricerca di sicurezza esistenziale in una situazione sconcertante e pericolosa, e nel mondo incerto che ne consegue. Non nasce da una visione slanciata del significato epico del momento storico, ma dalle profonde incertezze del momento personale, ricerca esitante ma insistente di senso che colora l’esperienza umana e che incontra a testa alta le possibilità del fallimento e della morte. In quanto tale, è un esempio modello di ciò che l’arte della poesia può scoprire in tempi difficili e del potere consolante e riconciliatore che questa scoperta può ottenere. Questo si manifesta nella poesia di Bigongiari in molti più modi, ma spiegare le sue origini nella sua personale interpretazione di Leopardi rivela la sua centralità nel suo senso di sé come poeta e il suo desiderio di fare della sua arte uno strumento umano comprensione.

Lo so che poco ho mantenuto, ma oso
pensare che già quello fosse il limite
del possibile, e che altro amare fosse
inscindibile forse dal suo opposto.
Dove stare, in quale strano posto
se non proprio nel luogo presupposto
come unico e impossibile per te:
amare senza credere di amare,
essere te senza pensare di esserlo?

Il viaggio, il nostos, che cos’è
se non allontanarsi da se stessi,
squilibrare un difficile equilibrio,
darsi al ludibrio azzurro dei miraggi,
mettersi ad ascoltare il sussurro
delle sirene, picconare il muro
della dimora, amare l’improbabile,
distruggere la storia del ritorno?

Sugli scogli verdastri di licheni
e viscidi del mare di Livorno
dove ha imparato a nuotare, un fanciullo,
con gli occhi pieni di quella malia,
ascolta il suadente andirivieni
della maretta, ascolta e distrugge
senza fretta la stanza dell’infanzia
e l’azzurra incostanza dello sguardo
nella vita che avanza
con moto alterno verso chi sta fermo
nega propria distanza immaginaria.

Non tutto ciò che sembra audace è eterno.
Ma forse solo lì è vera pace,
se solo nell’ alterno è l’identico,
quasi un batter di ciglia sotto il sole,
di cui è diversa solo la penombra.
In quella identità mi sono perso,
cerco me stesso in ogni alterità.
Sono fermo perché sono lontano
da me stesso e levo alta la mano
spesso a un saluto a chi non so chi è,
se si avvicina ignoto o si allontana,
gesto che sembra ma non è di resa:
è l’ignoto che in me fa la sua spesa
di un’avventura che in me e in lui
non si è arresa e non può arrendersi.
Chi è andato pel mondo a dolorare,
forse il mio doppio, di cui io nemmeno
riesco a immaginare il ritorno?

Forse gli itinerari ormai s’incrociano.
O divergono? Certo, sono rari,
sempre più rari, ormai gli appuntamenti
tra ciò che insegni e ciò che forse impari
o cerchi di imparare dall’ignoto
visitatore, che cosa e da chi
è più strano ormai d’ogni memoria?
Forse ho perduto una parte di me,
ma a chi l’ho data? Io non so dov’è.
Forse una fata l’ha rapita e
se mi ama non vuol restituirmela:
quasi è la perla di una promessa,
pegno ch’io devo ancora mantenere,
sulla soglia del suo fatato regno.

Ringrazio ogni mancanza. È la vita
che ormai danza con il mio fantasma,
con la mia gelosia, con ogni mia
ubbía: forse è il plasma incandescente
della mia allegria, simile a quello
che agita il segreto delle stelle.
E così sia, così sia, se è
quello che ormai ti visita nei sogni.

Da Il silenzio del poema: poesie 1996-1997, Marietti.


Tra la legge e la leggenda

Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse perché amo farmi là raggiungere
dove non sono, mentre guardo il mare
che insinua tra le sue macerie il grido
del gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto che galleggia tra le schegge,
al contrario del gran depistatore,
perché so che è difficile seguire
chi, indeciso sulla propria meta,
ma forse proprio in essa pesticciando,
si distrae dietro un viso, si nasconde
dietro il dito che indica le onde
che asciugano e bagnano la riva
del paese natale, la deriva
della luce che liquida ne assale
le sponde e nella mente le ravviva.

Amo confondere il cricchio del tarlo
a un andante di Mozart…, mescolare
il passo del viandante per la via
con quello di chi risale le scale
a semicerchio della nostalgia.

Amo dimenticare il profumo della cedrina
su quello della tua pelle. Del tutto
ricordare la parte più obliata,
del frutto il seme ch’entro sé difende
la sua amarezza in duro tegumento.
Ma se mento, non mento che a me stesso
per dirti la verità che nello stesso
errore è celata, difesa, abbandonata
a crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni elementari – è lì
che ogni due si unifica, nei suoi
seminali abbandoni.

Amo guardarti
mentre riveli in te una dolcezza
che è quella della fata che nascosta
tra gli alberi occhieggia che nessuno
la segua andando verso il suo tugurio
arredato come una reggia se tu
ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia impazzita tra gli altri balocchi
del destino che l’uomo chiama vita.

Cammino dietro a poche cose, quelle
meno necessarie, le più volatili,
le meno rare. Forse in mano ad esse
è il codice per leggere il messaggio
che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto, semicancellato,
fra terribilità e dolcezza.
Ma se tengo le mani ad un tempo
sui due telai, è che amo riprendere
dal secondo la tela che Penelope
sta sfacendo: è solo con quel filo
– altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
che sull’altro ritesso la leggenda.
Tu che la leggi strappane la benda
dei segni che l’accertano o la mettono
in forse, perché, vedi, sotto sanguina

Da L’enigma innamorato. Antologia 1933-1997, Vallecchi.

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