Poesie ritrovate: Tonino Guerra | L’Altrove
Tonino Guerra è una delle voci poetiche meno conosciute e considerate. Fu scrittore, poeta e sceneggiatore, cantore di quell’età post-bellica che poco si ricorda in questo modo.
Guerra nacque a Santarcangelo di Romagna il 16 marzo 1920, dopo il diploma, studiò pedagogia a Venezia e poi a Urbino. Si laureò però solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, perché fu arrestato e condotto in un campo di internamento a Troisdorf. Fu proprio in queste circostanze che iniziò a scrivere e a cantare per i suoi compagni di cella quei versi in romagnolo che tanto gli piacevano.
«Mi ritrovai con alcuni romagnoli che ogni sera mi chiedevano di recitare qualcosa nel nostro dialetto. Allora scrissi per loro tutta una serie di poesie in romagnolo.»
Liberato dalla prigionia, nel ’46, si laureò discutendo una tesi sulla poesia in romagnolo. Quelle che aveva composto furono poi lette e apprezzate da Carlo Bo, allora professore.
Guerra le fece pubblicare con il titolo Gli Scarabocchi. Nel 1950 vinse il Premio Emilia per la poesia in dialetto. Qualche anno dopo esordì nella narrativa con il romanzo La storia di Fortunato, pubblicato da Einaudi.
Nel 1953 si trasferì con la moglie a Roma, qui iniziò la sua carriera da sceneggiatore e collaborò con alcuni fra i più importanti registi italiani del tempo, come Antonioni e Fellini. La sua carriera nel cinema fu molto lunga, a 90 anni ricevette il David di Donatello alla carriera. Nel corso della sua vita si dedicò anche alla pittura. Del 72 è I bu. Poesie romagnole, pubblicato da Rizzoli che gli valse il Premio Carducci, ma vinse anche altri titoli e ricevette numerose onorificenze.
Di Tonino Guerra possiamo dire che fu il cantore della semplicità contadina, rurale. La limpidezza della sua poesia è un modello che adottarono anche altri poeti a lui vicini, come Pedretti, con il quale fu grande amico.
Le poesie in dialetto raccontano con grande particolarità quella sua Romagna in una chiave realistica. Il poeta descrive quella che fu trasformazione sociale ed economica della sua città natale, gli avvenimenti che segnarono la sua vita.
Ne è un esempio la poesia I Bu, nella quale racconta come quella ricchezza contadina, fatta di una lingua a sé, di una cultura preziosa, di grande valore, fosse minacciata dall’avanzare dell’industria, dal commercio e dalla nuova borghesia. A questa Guerra si oppone e chiede alla sua gente di parlare con i buoi, quelli che prima erano animali da soma, aiuti validi e cari agli uomini e che ora vengono sostituiti dalle macchine moderne, e a quei poveri animali non resta che essere condotti al macello.
Andé a di acsè mi bu ch’i vaga véa,
che quèl chi à fat i à fatt,
che adèss u s’èra préima se tratour.
E’ pianz e’ còr ma tòtt, ènca mu mè,
avdai ch’i à lavurè dal mièri d’ann
e adèss i à d’andè véa a tèsta basa
dri ma la còrda lònga de’ mazèll.
Ditelo ai miei buoi che l’è finita
che il loro lavoro non ci serve più
che oggi si fa prima col trattore.
E poi commoviamoci pure
a pensare alla fatica che hanno fatto per mille anni
mentre eccoli lì che se ne vanno a testa bassa
dietro la corda lunga del macello.
C’è quindi nell’opera di Guerra la dolce nostalgia degli anni passati, della gioventù, come in Amarcord.
Amarcord
Lo so, lo so, lo so
che un uomo, a 50 anni,
ha sempre le mani pulite
e io me le lavo due o tre volte al giorno
ma è quando mi vedo le mani sporche
che io mi ricordo di quando
ero ragazzo
Quell’Amarcord, quel mi ricordo, che diventa titolo di un film conosciutissimo, scritto proprio da guerra, che diverrà anche topos letterario, cinematografico per il suo modo di richiamare ricordi, di evocare momenti soprattutto con quel velo di ironia onirica.
Dunque una malinconia intima e delicata che si scopriamo in I Sacrifici, poesia dedicata alla madre, una profonda dedica alla figura materna, richiamata dolcemente come responsabile, attraverso le proprie rinunce, dell’educazione del figlio.
I sacrifici
Se mè ò studié
l’è stè par la mi ma,
ch’la fa una cròusa invéci de’ su nóm.
S’à cnòss tótt al zità
ch’u i è in chèva e’ mònd,
l’è stè par la mi ma, ch’la n’á viazè.
E ir a l’ò purtèda t’un cafè
a fè du pass, ch’la n’ vàid bèla pio lóm.
Mitéiv disdài. Sa vléiv? Vléiv un bignè?
I sacrifici
Se ho potuto studiare
lo devo a mia madre
che firma con la croce.
Se conosco tutte le città
che stanno in capo al mondo
è stato per mia madre, che non ha mai viaggiato.
Ieri l’ho portata in un caffè
a far due passi
perché quasi non ci vede più niente
– Sedetevi, qua. Cosa volete? un bignè?
Nella produzione letteraria di Tonino Guerra emerge quindi quel carattere basilare dell’esperienza. Le prime poesie sono un’interessante espressione di memoria, di ricordi ancora vivi del quotidiano. Saranno temi ricorrenti, affidati alla sua lingua-madre, il dialetto santarcangelese. Infatti Guerra utilizza un linguaggio semplice, umili, zeppo di termini contadini, del gergo popolare. Ciò delinea come è quanto il poeta sia appartenente alla comunità, sia la voce che parla della condizione umana, che esalta le tradizioni del popolo di cui ha esperienza. Il lavoro del poeta non si ferma qui, perché sotto la sua penna è svelata la realtà del borgo, ogni ritualità, stereotipo o bruttura ed il lettore viene condotto in esse, né entra a far parte.
L’obiettivo del dipingere determinate atmosfere non sembra tanto essere quello dell’incantamento fine a se stesso, bensì lo stimolo della ciclicità di una catena di immaginazione.
Da non tralasciare, nella poesia di Tonino Guerra, è il motivo bellico. L’atmosfera conflittuale emerge ed è una nota autobiografica. La tradóta e l’Insogni sono due dei componimenti in cui il poeta affronta il tema della guerra e della deportazione.
Il sogno
Sognavo che in una tradotta
andavo in Germania deportato,
nelle stazioni davano il via al treno
con bicchieri colmi di birra e di schiuma.
M’han preso su e portato al processo
nell’ultimo vagone
mentre il treno passava per Sant’Andrea,
che era pieno di gente vestita da tedeschi
con i pennelli da barba sul cappello.
Il comandante sdraiato in un letto di ferro
tutto a riccioli come le antenne delle farfalle
dice qualcosa, poi carica la sveglia:
un manico d’ombrello diventa una maniglia,
la maniglia una vecchia rivoltella.
“Mi raccomando che non gli scappi un colpo!”
Lui nemmeno mi ascolta, tocca il grilletto e
pum! Dico “è diventato matto?
adesso mi ha accoppato.” E mi sono svegliato.
Emergono le figure dei soldati condotti in Germania, come in un sogno, in cui il vagone del treno sembra una culla. Sogno che nelle ultime strofe si rivela un incubo, in un climax di tensione che sfocia nello sparo e nella morte.
La tematica del sogno, dell’onirico verrà ripresa diverse volte da Guerra anche nella scrittura dei suoi lungometraggi. Temi che si accordano a quello dell’infanzia, che l’autore presenta sempre con un linguaggio malinconico e quella lieve nostalgia, un’infanzia perduta in cui anche il lettore certamente può identificarsi.
Gli Scarabocchi
Questo il muro
e qui gli scarabocchi
che facevo da bambino
col gessetto,
da quando ho cominciato
a seguire il braccio
per fare una riga lunga
e i ghirigori.
Questo il muro
e qui gli scarabocchi.
NATALE DEL ’44
Da ragazzo anche la faccia mi luccicava
quando arrivava la festa di Natale.
Per tutta la notte si muoveva il setaccio
e la mattina mi davano il vestito bello.
Allora scappavo di corsa
per andare in piazza a farmi vedere;
e a mezzogiorno in punto alla tavola addobbata
si mangiava tutti in santa pace.
Il mio Natale! L’odore delle ciambelle!
Oggi l’ho passato in giro, per una strada,
senza pane, con una tuta in prestito,
lontano da casa e senza l’amore di nessuno.
È il passato che ritorna, che non vuole perdersi e che persiste nelle scene raccontate, fatti di oggetti, rumori, sensazioni e sentimenti che vogliono essere rievocati e riempire il reale.
Allora anche la poesia può e deve tornare all’infanzia, all’immediatezza, allo scarabocchio, ovvero a qualcosa che si impara a fare quasi per caso.