Addio a Cristina Annino | L’Altrove
Ci ha lasciato ieri la poetessa Cristina Annino.
Nara ad Arezzo l’11 dicembre 1941, la Annino si laureò in Lettere Moderne all’università di Firenze e in quegli anni entrò in contatto con il Gruppo ’70 ed iniziò ad essere influenzata dalla scrittura e dalle idee della neo-avanguardia.
Esordisce con la raccolta di poesie Non me lo dire non posso crederci, pubblicata dalla casa editrice Tèchne di Firenze nel 1969, seguirono Ritratto di un amico paziente, Gabrieli, 1977, Il Cane dei miracoli, Bastogi, 1980. Nel 1984 Walter Siti la inserì nell’antologia Nuovi poeti italiani n.3, Einaudi, con L’udito cronico.
Sul finire degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta la poetessa si dedicò alla pittura e alla scrittura in prosa. Nel 2010 venne pubblicato Magnificat (Puntoacapo) un libro che raccoglie testi dal 1969 al 2009. Nel 2016 per Donzelli uscì la sua ultima raccolta Anatomie in fuga.
La Annino è una voce straordinaria nel panorama della nostra poesia; poco conosciuta e lontana dalla notorietà, scrisse testi comunicativi e densi di parole. Dei dettati di pensieri, in un climax via via più grave, fino a culminare in verità ribelli o scomode, che non sarebbero state taciute.
Nelle sue liriche mescolò la sua visione con altre, creando spesso degli alter-ego, trasformandosi; liriche in cui ogni identità viene persa, poi ripresa e riformata, in un viaggio non scontato e nemmeno definitivo. Questo poetare fu il risultato dell’avvertire, da parte della poeta, la scomparsa di un’umanità nel mondo, della perdita di individualità. Un percorso poetico oscuro quello che ci propone la Annino, poco chiaro alla prima lettura, una poesia abitata da animali, cose animate ed inanimate, dolori, solitudini e ossessioni raccontati in verità e senza mitigazione o benevolenza alcuna. Sì, la Annino sembra lontana anni luce dalla poesia d’amore del Novecento, piuttosto ci immerge nel “disgusto”, nel pantano delle realtà, quasi con violenza e rabbia. C’è riluttanza nel parlare della bellezza o anche solo della semplicità della vita, perché il tutto viene visto con disillusione, senza aspettative, forse per paura di rimanerne deluso.
Poesia, quelle di Cristina Annino che al di là del gusto personale, ci rivela una forza stilistica prorompente, un carattere anticonformista ed originale.
Di seguito una selezione di sue poesie:
LA POESIA
Io so spiegare come si fa. So ch’è
opulenta, e qualcuno ne paga le spese. Sarà la nostra
società e basta; egoista, amara quanto qualsiasi
continente. Insomma
è tutto quel che si guarda. Ma senza
dubbio sono io il paese più poeta del mondo. Esempio:
getto un bicchier d’acqua sulla parete; quello
cade – lo giuro – però resta la macchia. Visto
al rallentatore con musica. Poi prendo col termometro
la temperatura al pezzo di muro fradicio.
Credo d’averne bisogno, di friggere e
d’annoiarmi. Con rara facilità quando dico “mia
madre è una magnolia, una
magnolia è mia madre”, giro da continente quel sostantivo
ovale di pianta nana, coi nervi a terra e a fuoco
il vento dei nei. Non per soldi
vo dal rosso all’aceto tenero e il bianco che fa
spavento come corni di bue. Nessun gioco
è peggio di questo. Neppure farsi coraggio, dire
avanti, lo stesso. O aspettarsi la risposta. Neanche
lessarsi nell’acqua, è meno.
Spara da sé il suo orologio senza
volerlo. Un fulmine, eccolo lì: rami sull’infinito
lesso dei piedi. Chi rifabbrica l’albero se n’è
andato. Neanche un pezzo. Dici che
schifo han fatto prima la morte, han fatto già
l’uovo. Codè. Ti
portano dentro; così si sa tutto. Noti
la polvere che all’aperto non vedi, e le gambe
perché sei solo. Senti chiudere la porta. Coc. Non
pensi al mondo, la società, il resto. Ma a quel
che viene spezzato allora. Dè. Un lavoro. E in qualche
parte qualcuno di certo paga il conto.
INTERVISTA AL POETA
A domanda rispondo: chiedo
d’essere scemo; che almeno mi si tolga
coscienza, veleno e storie dalla testa. Quelle
bianche venendo senza mani in cerca di me, con
noia e fede spesso le lavo. Ebbene, per
piacere non vengano più. Vorrei
vuoto assoluto per farci
il morto, e non mi guardi più niente. Elencherò: la
gente, pasti, libri, cellule
occhiute delle porte.
Mi pesano
molto i muri, le travi soprattutto c’han fatto
carriera. Poi il talco
degli orologi, il faro del letto, la carne come
un cow boy. Che io
finalmente sia freddo, invivente, con solo
un albero accanto e mia madre tra le altre piante.
FINE
La porta parlò – io stavo
dietro e disse ch’ero un poeta. Non l’avevo
mai ammesso ad ombra cinese, o alla casa, i
corridoi camerieri tuttalpiù li pestavo.
Son sempre
volato così: mai stato dovunque stessi. Volavo senza
parlare di me finché ero davvero
l’idea che gli altri si fanno. La
porta evaporò dietro, dopo che
mi sedei più solo che offeso, col Ministero
della Difesa alle spalle, tutto il muro e la strada sirena che
rimava come una bestia, lei, coi
piedi, i reni e con le
mani sulla faccia sudata. Ero un
poeta: attraversavo muri
cinesi seduto sull’acqua non dicendo
un’h di me. Mai. M’accendevo
da entrambi i lati senza
pensare a niente. Com’il
cammello può entrare nella cruna dell’ago.
Poesie tratte da “Magnificat. Poesie 1969-2009”, Puntoacapo