Poesie scelte di Edgar Allan Poe | L’Altrove
Il giorno più felice
Il giorno più felice – l’ora più felice
questo mio inaridito cuore ha già conosciuto;
ogni più alta speranza di trionfo e d’orgoglio
sento ch’è fuggita via.
Trionfo? oh sì, così fantasticavo;
ma da gran tempo svanirono ormai
le visione di quel mio giovanile tempo –
e sia pur così.
E quanto a te, orgoglio, che dirti?
Erediti pure un’altra fonte
quel veleno che approntasti per me –
Ora acquietati, o mio spirito.
Il giorno più felice – l’ora più felice –
che quest’occhi avrebbero visto — hanno già visto,
il rifulgente sguardo di trionfo e d’orgoglio
sento che é spento ormai.
Ma mi fosse pur riofferta quella speranza
di trionfo e d’orgoglio, e con la pena
che allora avvertivo — quella fulgente ora
io non vorrei riviverla:
giacché oscure scorie erano su quelle ali
e, al loro agitarsi, una maligna essenza
ne pioveva – fatale per un’anima
che già l’ha conosciuta.
Un sogno dentro un sogno
Questo mio bacio accogli sulla fronte!
E, da te ora separandomi,
lascia che io ti dica
che non sbagli se pensi
che furono un sogno i miei giorni;
e, tuttavia, se la speranza volò via
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nient’ altro,
è forse per questo meno svanita?
Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno.
Sto nel fragore
di un lido tormentato dalla risacca,
stringo in una mano
granelli di sabbia dorata.
Soltanto pochi! E pur come scivolano via,
per le mie dita, e ricadono sul mare!
Ed io piango – io piango!
O Dio! Non potrò trattenerli con una stretta più salda?
O Dio! Mai potrò salvarne
almeno uno, dall’onda spietata?
Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno?
Il corvo
Una volta, in una tetra mezzanotte, mentre meditavo, stanco e sconsolato,
su molti strani e astrusi volumi d’obliata sapienza,
mentre, sonnecchiando, già il capo mi si chinava, mi riscosse d’improvviso
un battito leggero,
come d’uno che bussasse sommesso alla porta della mia stanza.
«È un visitatore», borbottai, «che bussa alla porta della mia stanza –
solo questo e nulla più.»
Ah, distintamente ricordo che si era in un desolato dicembre,
e che ogni stizzo morente disegnava, dal camino, un suo spettro sul mio
pavimento.
Sospiravo ansioso il mattino; – giacché invano avevo chiesto
ai miei libri di lenire il mio dolore – il dolore per la perduta Lenora –
per la rara e radiosa fanciulla cui gli angeli dan nome Lenora –
ma che qui non avrà un nome mai più.
Il serico, triste fruscio dei drappeggi purpurei
mi suscitava un brivido – m’accendeva d’immaginari terrori mai prima
avvertiti;
sicché infine, per placare il pulsare del cuore, m’alzai ripetendo:
«È un visitatore che insiste alla porta della mia stanza –
qualcuno che s’attarda e insiste alla mia porta; –
solo questo e nulla più.»
Allora ripresi coraggio; e senza più esitare,
«Signore», dissi, «o signora, umilmente vi chiedo perdono;
ma è ch’io sonnecchiavo, e così sommesso fu
il vostro bussare,
così fu leggero quel vostro battito, battito alla mia porta,
che appena ero certo d’averlo io
inteso» — e tutta apersi la mia porta; –
solo tenebre e nulla più.
Scrutai a lungo in quelle tenebre, sostai a lungo con stupore e timore,
dubbioso, sognando sogni che mai un mortale osò prima sognare;
ma il silenzio era assoluto, e la muta aria, non dava alcun segno,
e una sola parola fu detta, fu bisbigliata: «Lenora!».
Fui io stesso a pronunciarla, e un’eco mi rimandò quella parola: «Lenora!».
Solo questo e nulla più.
Rientrai nella mia stanza, col cuore infiammato.
E di nuovo udii bussare, un po’ più forte udii bussare.
«Certo», mi dissi, «c’è qualcosa alla finestra;
m’accerterò, dunque, esplorerò questo mistero; –
con cautela esplorerò questo mistero
sarà il vento e nulla più!»
Aprii la finestra: ed allora con strepito d’ali
entrò nella stanza un maestoso corvo dei sacrali giorni d’un tempo;
non fece alcun cenno d’ossequio, non un attimo s’arrestò o indugiò;
ma con portamento d’un gran signore o di dama si posò sulla mia porta –
si posò sul busto d’una Minerva, sopra la porta della mia stanza –
lassù si posò e nulla più.
Inducendo allora quest’uccello d’ebano un po’ al sorriso i miei tristi
pensieri,
con il grave e severo contegno che si dava,
«Per quanto», io dissi, «la tua cresta sia rasa e tagliata,
tu non sei certo né vile né spregevole,
orrido, cupo e antico corvo, qui giunto dalle rive della Notte;
dimmi qual nobile nome è il tuo sulle plutonie rive della Notte!» Disse il corvo: «Mai più».
Molto fui stupito a udir parlare così distintamente quel goffo uccello,
quantunque non avesse molto senso, scarsa attinenza avesse anzi la sua
risposta;
poiché certo ognuno converrà che a nessuna vivente persona
toccò mai di vedere un uccello sulla porta della sua stanza –
uccello o altro animale posato sul busto scultoreo sopra la porta della sua
stanza,
e con un tale nome, «Mai più».
Ma il corvo, solitario sedendo sul placido busto, altro non disse
che quella sola parola, quasi che tutta la sua anima in quella sola parola
avesse profuso.
Né altro più aggiunse – né piuma più scosse –
finché non diss’io in un soffio: «Altri amici già volaron via –
e domani anch’egli andrà via, come le speranze che già tutte volaron via».
Disse allora l’uccello: «Mai più».
Attonito per quell’appropriata risposta che così infrangeva il silenzio,
«Senza dubbio», io ripresi, «è quel che dice tutto quel che sa,
appreso da un qualche infelice padrone che la Sventura
strinse dappresso, sempre più, e più, finché ogni suo canto non si ridusse
che a quel ritornello –
finché gli inni della sua mesta speranza non si ridussero che a quell’unico
malinconico
“Mai – mai più”».
E mentre il corvo ancora m’induceva al sorriso i tristi pensieri,
io sospinsi la mia poltrona fino alla porta, innanzi al busto e innanzi a
quell’uccello;
quindi, affondato nel velluto, mi diedi a collegare
pensiero a pensiero, domandandomi che cosa mai quel sinistro uccello
d’altri tempi –
che cosa mai questo cupo, goffo, avido, infausto e sinistro uccello d’altri
tempi
volesse dire, gracchiando «Mai più».
Così io sedevo, immerso in congetture, e non più mi volgevo
all’uccello, i cui fieri occhi ora nel petto mi bruciavano;
così io sedevo, su questo e su altro ancora pronosticando, chinata la testa
sul velluto del cuscino, su cui la lampada fissava il suo occhio di luce,
sul tessuto di viola che la lampada fissava col suo occhio di luce,
e che lei non toccherà mai più!
Poi, così mi parve, diventò l’aria più densa, quasi fosse profumata da un
invisibile incensiere
da serafini agitato, col tintinnio dei loro passi che sfioravano il tappeto.
«Ah, misero», gridai, «t’offre Iddio per mano di questi angeli, ti offre Iddio
un sollievo — sollievo e nepente per il ricordo della tua Lenora;
sorseggia, oh sorseggia questo dolce nepente e dimentica questa tua
perduta Lenora!»
Disse il corvo: «Mai più».
«Profeta!», io dissi, «mostro del male! – profeta pur sempre, uccello o
demonio! –
sia che il Maligno stesso t’abbia mandato o la tempesta qui gettato sulla
riva,
afflitto ma non domato, su questa deserta terra stregata –
su questa casa visitata dall’Orrore – dimmi ora, io t’imploro –
vi è – vi è un balsamo in Gilead? Dimmelo – dimmelo, io t’imploro!»
Disse il corvo: «Mai più».
«Profeta», io dissi, «mostro del male! — profeta pur sempre, uccello o
demonio!
Per quel cielo che su noi s’incurva – per quel Dio che entrambi
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di’ a quest’anima oppressa se mai nel remoto Eden
abbraccerà più mai una fanciulla beata che gli angeli chiaman Lenora –
abbraccerà più mai quella rara e radiosa fanciulla che gli angeli chiaman
Lenora.»
Disse il corvo: «Mai più».
«E sia questa tua parola per noi ora segno d’addio, uccello o demonio!»
gridai e balzai in piedi.
Ritorna alle tue tempeste e alle plutonie rive della Notte!
Non lasciarmi nessuna tua nera piuma a significar la tua menzogna!
La mia solitudine lascia a me intoccata, e tu lascia il busto sopra la mia
porta!
Porta via il tuo becco, dal mio cuore, porta via la tua figura da quella mia
porta!
Disse il corvo: «Mai più».
E mai più volando via di lì, il corvo ancora lì posa, ancora
lì siede, sul pallido busto di Pallade, sopra la porta della mia stanza;
e sembrano i suoi gli occhi d’un demonio che sogni;
e la luce della lampada che l’investe ne getta l’ombra sul pavimento;
e la mia anima da quell’ombra che fluttua e tremola sul pavimento
non sarà sollevata — mai più!
Stella della Sera
L’estate era al suo meriggio,
e la notte al suo colmo;
e ogni stella, nella sua propria orbita,
brillava pallida, pur nella luce
della luna, che più lucente e più fredda,
dominava tra gli schiavi pianeti,
nei cieli signora assoluta –
e, col suo raggio, sulle onde.
Per un poco io fissai
il suo freddo sorriso;
oh, troppo freddo — troppo freddo per me!
Passò, come un sudario,
una nuvola lanuginosa,
e io allora mi volsi a te,
orgogliosa stella della sera,
alla tua remota fiamma,
più caro avendo il tuo raggio;
giacché più m’allieta
l’orgogliosa parte
che in cielo svolgi a notte,
e di più io ammiro
il tuo fuoco distante
che non quella più fredda, consueta luce.
Solo
Fanciullo, io già non ero
come altri erano, né vedevo
come gli altri vedevano. Mai
derivai da una comune fonte
le mie passioni — né mai,
da quella stessa, i miei aspri affanni.
Né il tripudio al mio cuore
io ridestavo in accordo con altri.
Tutto quel che amai, io l’amai da solo.
Allora – in quell’età – nell’alba
d’una procellosa vita — fu derivato
da ogni più oscuro abisso di bene e male
il mistero che ancora m’avvince –
dai torrenti e dalle sorgenti –
dalla rossa roccia dei monti –
dal sole che d’intorno mi ruotava
nelle sue dorate tinte autunnali –
dal celeste baleno
che daccanto mi guizzava –
dal tuono e dalla tempesta –
e dalla nuvola che forma assumeva
(mentre era azzurro tutto l’altro cielo)
di un dèmone alla mia vista.
Tratte da “Il corvo e tutte le poesie”, Newton Compton Editori.