Recensione: “La grazia dei frammenti” di Domenico Cipriano | L’Altrove
Vita, ovvero schegge frantumate in mille pezzi irreparabili, come poetizzato dal 2000 al 2020 all’interno dell’antologia La grazia dei frammenti (poesie scelte 2000-2020) del poeta campano Domenico Cipriano (Guardia Lombardi, 1970).
Schegge cipriane, come trasandate ombre che si muovono in offuscate giornate riflettenti insignificanti e moleste chimere soporifere, che si eclissano in afosi soli annegati, in oceaniche emozioni temporalesche. Ombre queste raccolte nell’opera Il continente perso del 2000, che, emanano cristalline voci passionali intese come ardenti carezze capaci di far rivivere neniosi camposanti spirituali, in quanto, animate da purpurei canti d’usignolo. Camposanti spirituali, quelli cipriani, che si mostrano con sembianze raffiguranti la vera esistenza, ovvero come taciturni aneliti sanguinanti, emarginati ed eternamente impavidi che defecano tristezze carnalmente zingaresche e vocalmente sozze perdonabili unicamente con echi lunari, ovvero con immonde fonti battesimali partorite da folli tenebre. Ombre più nel dettaglio, come femminili carnalità oceanicamente negromanti ed unicamente irriproducibili destinate a mutarsi in apatiche, frigide e lapidarie lacrime come mostratoci nella successiva raccolta Novembre del 2010. Lacrime qui poetizzate sotto forma di prosa poetica, che, si mostrano come carezze incapaci di sorvegliare mistici piagnistei emarginati e snervanti vocalità labirintiche, in quanto universi partoriti in fraterne carceri sepolcrali. Carezze oscuranti e soffocanti calorosi affetti, ma in particolar modo proiettanti nei nostri cuori ardenti luci, per noi ormai plastiche reminiscenze del passato. Nostalgie di un tempo ormai passato, che scuotono le nostre emozioni fallendo nel ricostruire purpuree esistenze, poiché animate da intimi solitudini annegate in sepolcrali sguardi, che, si muovono in ansimanti e insignificanti autostrade memoriali. Carezze, anzi lacrime, che feriscono le nostre emozioni lasciandole completamente ignude rimembrando così le “Lacrime di pioggia” cantate nel 2003 da Antonello Venditti, ovvero ansimi piovani mutanti intimi affetti amoroso-emotivi in burrasche esistenziali infettate da eterne nostalgie ultraterrene.
Lacrime, a loro volta, che si muteranno nella raccolta Il centro del mondo del 2014 nella loro forma finale, ovvero in schegge e integerrime emotività mutandole, in omerici labirinti interiori. Labirinti psichici, questi, che lasciano pesanti orme partorienti blasfeme ombre ed esilianti affettuosità oceaniche, ma in particolar modo come fumo di sigaretta soffocante distillate vocalità in tremolanti ansimi luttuosi, ovvero in diligenti fatti evanescenti. Ansimi che addormentano dolci astri lunari in ferite schiaffeggiate da lacrime, per purificare (inutilmente) intimi affetti persi in fotografici luoghi natii. Universi, questi ultimi, come sguardi sociali persi nel vuoto e oceanicamente picchiati da indifferenze emotive, che, si tumulano in paradisiache ed elisiache campagne abbracciate da lussuriosi, erotici e droganti profumi viniferi, che, conducono la loro anima in apolloniche fonti battesimali animate da vivide chimere utopicamente sognanti. Schegge, infine, condannate a rimanere tali nella raccolta L’Origine del 2017 in vitrei frammenti riflettenti paure, emozioni e intelligenze animate da gioiose lacrime sepolcrali partorienti stuprati feti pari a cadaveri annegati in letamosi fiumi esistenziali, come mostratoci nelle poesie inedite Poesie nel bicchiere da consumare (Sei poesie sul vino) del 2020, all’interno dell’antologia. Schegge, quelle poetizzate nell’antologia La grazia dei frammenti (poesie scelte 2000-2020), che altro non sono che frammenti di sanguinanti Fiori del Tempo versanti calde lacrime cenerognole in flagellati pellegrinaggi, poiché animati da oleosi marchingegni floreali arrugginiti, che, si purificano in chimiche carnalità battezzate in intimi fiumi svuotati dai loro abbaglianti e accecanti riflessi lunari. Fiori del Tempo, in poche parole, come avide, lussuriose e sanguinarie dipartite che accecano verginei sguardi con fuligginosi ansimi infettati da promiscue emotività etiche. Fiori del Tempo, come detto poc’anzi, che si muteranno in schegge intese come ferite spirituali che versano panzane di mendicità e queste utopie socio-psicologiche, a loro volta mutanti gli intimi affetti in estranei, sconosciuti e irriverenti visi anneganti in abissali sguardi violentati eticamente. Ferite queste, che cercheranno inutilmente e ingenuamente di recuperare fotografie, calorosità e abbracci ormai mutati in demoniaci sassi. Ombre, lacrime, schegge infine di Fiori del Tempo simboleggianti in poche parole la Vita, ovvero un Madre che ci accompagna per mari esistenziali animati da balsami e ci battezza in cieli lunari vacui di magiche nenie.
A cura di Stefano Bardi.
Sono stelle distribuite in terra
nei luoghi che ospitano amici,
se ne collego i punti disegno
immagini multiformi, una bocca
che mastica i pensieri, perché
muovo il labbro negli spostamenti
e ovunque una lampadina segnaposto
indica dove si colloca la vita.
Così, la notte ci scostiamo
e chiediamo aiuto ai lampioni
di resistere. Qualche guardiano
tiene in vita il respiro.
(a Sofia)
Moriamo pezzo dopo pezzo mutando,
crescerai e sarai altro, diversa. Ferma
l’immagine che hai già cancellato
nelle ore (non è affidabile la memoria)
così la presenza non è solo un dettaglio
per la nostra comprensione. Filo spinato
e ruggine sui punti fermi del mondo,
ma nemmeno quello spigolo d’universo
ci appartiene. Cambiano con te
le cose abbandonate.
(a Cosimo)
Esistiamo perché mutiamo. Il corpo
si trasforma con il tempo, così la voce
e l’odore che tutto dice. Conserviamo
poco, diamo segno di noi
nel pensiero che si evolve, nelle azioni
che si alternano, confondendo
i colori che la pelle mostra, variando i suoni
che all’istante diventano parole.
Se c’è una storia da ricomporre
(pezzo a pezzo) è nel modificarsi
delle orme che tracciamo. Così,
solo le cose ferme ci ricordano
dove siamo già esistiti,
anche se il vento cerca di mutarne le sembianze
con la polvere che accumula
in forme disadorne.
Continuiamo a dirci vivi
ostinandoci a non apparire uguali
e questo morire eternamente
è il volto stesso che la vita ci consente.
9.
la vita tra le intercapedini dei muri diventa
meno artificiale. bastano parole poche e gesti
per riempire le giornate. le notizie tra le attese
alimentano la parte inafferrabile di ogni labile
esistenza. poi tutto si ricompone stringendosi
ai residui della vita: il confine è già segnato
e nulla ti riporta indietro.
L’AUTORE
Domenico Cipriano, poeta, è nato a Guardia Lombardi nel 1970 e da anni vive in Irpinia, per lavoro. Ha pubblicato per la poesia Il continente perso, Fermenti, 2000; Novembre, Transeuropa, 2010; Il centro del mondo, Transeuropa, 2014; November, Gradiva Publications, 2015; L’Origine, L’arcolaio, 2017; La grazia dei frammenti (poesie scelte 2000-2020), Ladolfi. Ha prodotto il CD di jazz e poesia JPband: Le note richiamano versi (Abeatrecords, 2004) e si occupa della formazione di musica e poesia “e.Versi jazz-poetry”. Sue poesie sono presenti in riviste e antologie varie.
Un commento
lessereeilnulla
Molto belle le poesie di Cipriano. Grazie per l’articolo.