Riscoprire i poeti

Poesie scelte di Czesław Miłosz | L’Altrove

Così poco

Così poco ho detto.
Giorni brevi.

Giorni brevi,
Notti brevi,
Anni brevi.

Così poco ho detto,
Non ho latto in tempo.

Il mio cuore si è stancato di
Entusiasmo,
Disperazione,
Ardore,
Speranza.

Le fauci del leviatano
Si sono richiuse su di me.

Nudo giacevo sulle rive
In isole disabitate.

Mi ha trascinato con sé nell’abisso
La bianca balena del mondo.

E ora non so
Cosa fosse vero.


Speranza

La speranza c’è, quando uno crede
Che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,
E che vista, tatto e udito non mentono.
E tutte le cose che qui ho conosciuto
Son come un giardino, quando stai sulla soglia.

Entrarvi non si può. Ma c’è di sicuro.
Se guardassimo meglio e più saggiamente
Un nuovo fiore ancora e più d’una stella
Nel giardino del mondo scorgeremmo.

Taluni dicono che l’occhio c’inganna
E che non c’è nulla, solo apparenza.
Ma proprio questi non hanno speranza.
Pensano che appena l’uomo volta le spalle
Il mondo intero dietro a lui più non sia,
Come da mani di ladro portato via.


Sempre ho desiderato una forma più capiente,
che non fosse troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di capirsi senza esporre nessuno,
né autore né lettore, a pene di più alto grado.

In sé la poesia è qualcosa di sconveniente:
esce da noi e non sapevamo che ci fosse,
dunque sbattiamo le palpebre, come se da noi fosse balzata
fuori una tigre, e stesse nella luce,
colpendosi i fianchi con la coda.

Perciò si dice giustamente che un dàimon detta la poesia,
pur se è eccessivo ritenere che sia di certo un angelo.
Difficile capire donde venga l’orgoglio dei poeti
se si vergognano quando traspare la loro debolezza.

Quale uomo assennato vorrà darsi in balìa dei dèmoni
che si muovono in lui liberamente, parlando mille lingue,
e non paghi di rubargli labbra e mano
tentano di mutare a proprio vantaggio il suo destino?

Poiché ciò ch’è morboso è oggi stimato,
qualcuno penserà che scherzo solamente
o che ho scoperto un altro modo
per lodare l’Arte tramite l’ironia.

Un tempo si leggevano soltanto saggi libri
che aiutavano a sopportare il dolore e la sventura.
Non è lo stesso, certo, sfogliare mille opere
provenienti da una clinica psichiatrica.

Ma il mondo è altro da come a noi appare
e noi non siamo come nel nostro farneticare.
La gente dunque conserva una tacita onestà,
acquisendo così la stima di parenti e vicini.

È questa l’utilità della poesia, che ci ricorda
com’è difficile restar sempre gli stessi,
perché la nostra casa è aperta, non c’è chiave alla porta
ed entrano ed escono ospiti invisibili.

D’accordo, quello che scrivo qui non è poesia.
Poiché poesia si può scrivere di rado, e non di propria voglia,
per coercizione intollerabile, e con la sola speranza
che buoni, non cattivi spiriti ci abbiano come strumento.


Non di più

Dovrei dire un giorno come ho mutato
Parere sulla poesia e come è successo
Che mi consideri oggi uno dei tanti
Mercanti e artigiani dell’Impero del Giappone
Che componevano versi sui ciliegi in fiore,
I crisantemi e la luna piena.

Se potessi descrivere le cortigiane veneziane
Che stuzzicano con un vinco un pavone nel cortile,
E sgusciare dal tessuto di seta, dalla cintura
Periata i loro seni appesantiti, la striscia
Rossastra lasciatagli sul ventre dalla fibbia della veste,
Almeno come apparivano al capitano dei galeoni
Giunti quel mattino carichi d’oro;
E se al tempo stesso potessi le loro povere ossa
In un cimitero, dove un grasso mare lecca la porta,
Racchiudere in una parola più resistente dell’ultimo pettine
Che nella polvere sotto la lastra, solo, attende la luce.

Allora non dubiterei. Da una sostanza refrattaria
Cosa si può raccogliere? Niente, tutt’al più la bellezza.
E allora devono bastarci i fiori dei ciliegi
I crisantemi e la luna piena.


Studio della solitudine

Guardiano di condutture che corrono nel deserto?
Solitario presidio d’una fortezza di sabbia?
Chiunque fosse. Vedeva all’alba montagne ondulate
Color cenere, sulla notte che fonde,
Impregnarsi dì violetto, tingersi di liquido belletto,
Ed ergersi, infine, enormi nella luce arancione.
Giorno dopo giorno. E, se non se ne avvide, anno dopo anno.
Per chi, pensava, questo splendore? Per me solo?
Eppure continuerà ad esserci quando io non sarò più.
Cos’è questo nell’occhio della lucertola? Cosa vede
il fuggevole uccello?
Se io sono l’umanità, questa è se stessa senza di me?
E sapeva che gridare era inutile, perché nessuno di loro
l’avrebbe salvato.

Foto di Horst Tappe/Hulton Archive/Getty Images

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