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Intervista a Giuliano Logos, campione mondiale di Poetry Slam | L’Altrove

Che la poesia debba essere un urlo, lo sappiamo bene. Un urlo nell’indifferenza, farsi sentire, provocare e rivoluzionare, non solamente ars gratia artis.
L’intento della parola poetica deve essere anche quello di incidersi nella mente, farsi ricordare, trasmutare l’uomo, la società.
È possibile sperare in questo, è possibile che questo bisogno di un logos potente si materializzi, diventi reale, che torni una poesia che scuota, anzi è già tornata. La poesia che intendiamo la sentiamo recitata, urlata, sussurrata nei Poetry Slam, in cui moderni aedi portano le loro performance, vengono accolti, ascoltati e infine giudicati. Il Poetry Slam altro non è che un ritorno alle origini dell’espressione poetica, alla sua natura, così viva e pulsante, una poesia fatta per essere ascoltata.

Il 20 luglio 1986, Marc Kelly Smith, carpentiere e poeta, non sapeva nemmeno che stava fondando un movimento che avrebbe visto migliaia di persone appassionarsi ad esso. Il 20 luglio 1986 non sapeva che da la quella data in poi si sarebbero svolti migliaia e migliaia di slam, che sui palchi di tutto il mondo sarebbero saliti centinaia e centinaia di persone, che la poesia avrebbe avuto il potere di schiaffeggiare l’ascoltatore, di risvegliarlo da quello stato di torpore silenzioso che lo aveva colpito. Ed è successo. Smith, lo Slam Papi, ha contribuito a trasformare il modo di fare poesia, almeno per alcuni, e di percepirla, sulla scia della Beat Generation, in una Chicago piena di fermento poetico, ha portato la poesia nel suo posto: tra la gente.

«La parola “poesia” ripugna le persone. Sapete perché? Per ciò che la scuola ha fatto alla poesia. Gli slam restituiscono la poesia alle persone… Abbiamo bisogno di parlarci poeticamente tra noi. È il modo che abbiamo per comunicare i nostri valori, i nostri cuori e tutte le cose che abbiamo imparato e che ci rendono quello che siamo.»

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Da lì in poi, è stato tutta una discesa, il movimento è giunto in Italia grazie a Lello Voce, fondatore della Lega Italia Poetry Slam (LIPS), si è diffuso, ha fatto parlare di sé e poi è avvenuto che il 15 maggio di quest’anno, un giovane ventisettenne abbia vinto Coppa del mondo di Poetry Slam. Un italiano, per l’esattezza: Giuliano Logos. E per la prima volta, alla quindicesima edizione. Un palcoscenico internazionale, quello parigino, in cui si sono avvicendati poeti di diverse nazionalità e linguaggi, ma con un unico senso comune: creare un contatto col pubblico, restituirgli la poesia.

Non si può non essere orgogliosi di questo successo, anche se Giuliano è un habitué dei palchi importanti, è stato all’European Poetry Slam Championship nel 2016, per tre volte ha vinto il campionato dell’AREA SUD (Puglia-Calabria-Basilicata) della LIPS, fa rap, ha fondato due collettivi, SlammalS, in Puglia e WOW – Incendi Spontanei nella sua città attuale, Roma.

Non ci siamo fatti sfuggire l’occasione di parlare con lui. Ecco la nostra intervista.

Anzitutto grazie mille. Come si sente Giuliano Logos dopo aver vinto il campionato mondiale di Poetry Slam? Che sensazioni ti porti addosso?

Mi sento estremamente fortunato, perché il livello dei poeti partecipanti era veramente alto.
C’erano i rappresentanti di una ventina di nazioni, ciascuno di loro aveva alle spalle una lunga carriera, ognuno con le proprie caratteristiche e peculiarità interessanti. E io ero terrorizzato, ma allo stesso entusiasmato, già il solo fatto di partecipare e rappresentare la LIPS rappresentava un grande onore.
E devo anche dire che ho avuto una componente di fortuna non indifferente o comunque ci sono state congiunzioni favorevoli che si sono create, perché un determinato tipo di pubblico in un determinato momento è più propenso ad ascoltare e ad apprezzare maggiormente un testo. È andata bene e sento una soddisfazione e una gratitudine immensa.

Hai presentato poesie diverse tra loro, ma con un filo conduttore comune: l’uomo, il genere umano. Con le sue difficoltà e contraddizioni. Ti lasci ispirare molto dai fatti di cronaca?

Dico di sì. Più che di un’attività nella ricerca delle tematiche di cronaca che possono ispirarmi, mi accade semplicemente che le notizie mi arrivino. Si tratta di tematiche estremamente importanti, a cui ogni cittadino dovrebbe interessarsi.
Assorbo ogni informazione, queste si depositano e sento il bisogno di dire la mia, sempre con i piedi di piombo. Ritengo che sia importante voler approfondire di proposito per poterne parlare. Capita spesso che una questione mi appassioni particolarmente e io che io ne parli anche attraverso i canali poetici, perché la poesia ha e deve avere questo ruolo di spinta nei confronti della società.
Invece, ritengo che il filo conduttore nella mia ricerca sia il tempo, sia come rapporto del singolo con il concetto di tempo, quindi come vive il proprio tempo, e sia il rapporto della società nei confronti di esso, cosa, come società, ci siamo imposti di voler rispettare nei confronti del nostro tempo. Questo rapporto si può declinare in diverse maniere, può essere visto in una chiave futuristica come in “3040”, o prendendo in considerazione un lasso di tempo relativamente breve, in cui accadono moltissime cose come in “Quattrocento anni”, o ancora riflettendo sul nostro passato, in “Federico”.

Com’è nata la tua passione per la poesia orale? Ce lo racconteresti?

Sì, volentieri. Mi è sempre piaciuto scrivere, ho avuto questa attitudine per le parole, ma c’era un minore rapporto con l’oralità. Poi c’è stato un passaggio dall’utilizzo di queste parole scritte solo per me a quelle scritte per comunicare con il mondo. Credo sia avvenuto in prima superiore quando mi sono avvicinato all’Hip-Hop, e sento tuttora questa vicinanza alla cultura hip-hop e rap. Ma c’è stata una considerazione importante. Spesso nelle serate di musica o rap hiphop mi accorgevo che, forse anche a causa degli impianti di livello amatoriale, non c’era molta attenzione del pubblico ad ogni singola parola.
Dopo un po’ di tempo, un mio amico, che si trovava a Lille per l’Erasmus, ha assistito al suo primo Poetry Slam. Quel giorno mi ha chiamato molto entusiasmato da quello che stava vedendo, la definiva “una cosa a metà tra il rap e il teatro, una gara di poesia in cui la gente è in silenzio e ascolta, una cosa incredibile! Si chiama Poetry Slam ed è quello che vogliamo fare noi”.
Subito dopo ho cercato informazioni e ho trovato la Lips. Sono venuto a contatto con il referente per la regione Puglia, Andrea Bitonto, ci siamo incontrati e abbiamo parlato molto. Una sera c’è stato un Poetry Slam organizzato da lui al quale ho partecipato.
Anzi, ricordo che siamo rimasti in panne con la sua auto e l’ho aiutato a spingerla! È stato divertente!
Da lì abbiamo iniziato a organizzare serate insieme, abbiamo fondato un collettivo insieme, SlammalS. E adesso tutto ciò occupa una parte importante della mia vita.

Come è andata alla fine la gara?

È andata molto bene, sono arrivato secondo. Poi ho conosciuto lì delle persone con cui ho fondato il mio primo collettivo di Poetry Slam in Puglia. La cosa che ricordo è stata questa incredibile attenzione per le mie parole, per quello che avevo da dire e ciò mi ha folgorato.

Sei anche un rapper. Come concili musica e poesia? I testi che reciti diventano anche canzoni?

È una domanda interessante. Inizialmente portavo i testi delle mie canzoni rap, recitati a cappella e in maniera diversa. Poi è accaduta una sorta di ripartizione nelle cose che scrivevo. C’erano le volte in cui scrivevo di testa e altre di pancia. Anche oggi sento di avere una maggiore razionalità nei testi rap e una maggiore emotività in quelli che porto agli Slam, anche se è riduttivo dirlo in questo modo. Le due cose comunque vanno a combaciare; non concepisco un testo rap che non abbia un minimo di profondità, perché il rap è uno strumento potentissimo. D’altra parte, quando scrivo dei testi poetici, sento di poter superare dei limiti che la metrica del rap impone, come i quattro quarti. Questo mi fa sentire come un jazzista, con tutte le giuste differenze, quando fa free-jazz. Questo senso di libertà mi dà la possibilità di andare trattare più in profondità certe tematiche.

Marc Smith diceva: “La poesia non è fatta per glorificare il poeta, essa esiste per celebrare la comunità.” Quanto sei d’accordo?

Assolutamente d’accordo. “Il punto non sono i punti. Il punto è la poesia”. La poesia è nata per diffondere informazioni, messaggi, storie, emozioni per la comunità attraverso gli aedi, ed è una cosa che ha un’importanza che dovrebbe rivelarsi ancora oggi. Ci sono stati momenti storici in cui chi si è servito di questo ha avuto i suoi momenti di gloria, una cosa che non è sbagliata. Ma non sono d’accordo che la poesia sia fatta per glorificare il singolo, è vero che ciò può accadere, ma lo scopo fondamentale è creare quel senso di comunità che appartiene alla poesia, per far progredire la società.

Chi sono i tuoi maestri? Chi ti ha ispirato maggiormente?

Caparezza dal punto di vista del rap italiano.
Ma ogni epoca ha un personaggio a cui potersi ispirare. Io porto il nome “Logos” da Eraclito. Considero particolarmente importante per me tutto lo studio della filosofia che ho fatto, la ricerca filosofica ha giocato un ruolo importante nella mia vita, perché mi ha dato la possibilità di capire l’importanza che le parole possono avere nella realtà, nella socialità. Tra i fondatori del movimento artistico di cui faccio parte c’è Gil Scott-Heron con il suo motto “The Revolution Will Not Be Televised”, il quale è stato padre della Black Music e dello Spoken Word. Con parte della Beat Generation condivido una bella parte di “fiamma emotiva”, e poi c’è Dylan Thomas.

La poesia che avresti voluto scrivere tu?

Una di Dylan Thomas, sicuramente “Non andartene in quella buona notte”. La poesia slam italiana che avrei voluto scrivere io è “A memoir” di Riccardo Iachini di Zoopalco, trovo che sia di una potenza immensa.

Cosa consigli a chi vuole avvicinarsi a questo genere poetico?

Consiglio di salire sul palco il prima possibile, la sensazione è quella che hai quando ti trovi su una roccia e vorresti tuffarti, ma qualcosa ti blocca. Il Poetry Slam mette tutti nelle condizioni di esprimere se stessi, senza pregiudizi e in maniera tranquilla e aperta. Ciò che si può scoprire avvicinandosi al Poetry Slam è l’esistenza di gente come te che vuole scrivere e esprimere con altri ciò che pensa. Nessuno è lì per giudicare, tutti sono attenti affinché questo non accada. Una performance può piacere o meno, ma c’è sempre un profondo rispetto per la persona sul palco e il suo testo. È uno scambio reciproco. Può sembrare spaventoso, magari se non si vuole essere giudicati da un pubblico, c’è sempre l’open mic, subito dopo una gara di slam, in cui si viene a creare un’atmosfera ancora più rilassata, senza giudizi. Lo Slam è una cosa bellissima, che mi ha cambiato la vita e può cambiare la vita di chi ci sta leggendo.

Pensavo rispondessi anche aiutare gli organizzatori di slam con l’auto in panne!

(Ride) Anche questo! Assolutamente! Aiutate tutti i poeti che trovate in difficoltà, perché questo potrebbe cambiare la vostra vita!

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