Estratto da “Cosa resta dei vetri” di Elisa Nanini | L’Altrove
Cosa resta dei vetri è quesito tutt’altro che retorico e in ogni caso allusivamente polisemico, a maggior ragione se esposto con tanta perentorietà nell’evidenza affermativa del titolo. Del libro d’esordio della modenese Elisa Nanini, invece, si sa bene cosa resta, dopo averlo letto: un’acquisizione permanente di consistency, per dirla con l’Italo Calvino delle estreme Lezioni americane, vale a dire di tenuta autentica della tessitura che intreccia le sue singole componenti, le tre sezioni nelle quali il macrotesto è suddiviso e queste tra loro. Non ne affiorano, infatti, parti inerti né immagini o metafore fini a se stesse: tutto concorre semmai a un’unità d’insieme.
[…] È un esordio notevole, questo di Elisa Nanini, che conferma come un consistente patrimonio culturale, anche oggi (se non soprattutto oggi), promuova e rafforzi — senza danneggiarla — la libera manifestazione emotiva oltremodo cara alle ultime e ultimissime generazioni di poesia.
Dalla nota critica di Alberto Bertoni.
Perderti ma non perderti
Un sacchetto volato via
non è fuori posto su un albero.
A volte pensare è scivolare
nel tuo armadio disabitato,
la meraviglia pienezza di senso:
di non sola terra scrive la Terra
il rumore dell’anta
sul cemento batte le dita
e non puoi farne a meno.
Perderti ma non perderti
è forma di ogni tetto
qualcosa che assomiglia a una preghiera
grigia di parole invecchiate
l’erba del nulla
miracoloso che ci unisce. L’acqua
scricchiola sotto.
Oggi ti sento e non so dirti
più che indicibile,
dietro il nylon inarcato a ponte
volerti bene è figlio del figlio,
filo,
taglio tanto da essere vivo.
Terremoto
Costeggia senza nome
il significare obliquo e stravolto,
la scanalatura di luce
tra i mattoni come un capo d’accusa.
Scontro i filari
le pianure terremotate
nello squarcio che apre alla Bassa.
Un finestrino, uno specchietto,
le spalle:
la superficie deborda la lava
del tramonto sui templi
di qualcun altro
e non si può capire fino in fondo
la scheggia nell’intonaco
dentro le case più fortunate:
la stessa terra trema
e si stinge nel fischio
della corrente.
Portici
Lo scacco
martella le maniglie
bloccate nel ghiaccio
inchini forzati d’attesa
le sfere di cristallo rotte
e la bufera calma
di coriandoli e schegge.
L’acustica della polvere segue
i mulinelli per uscire illesa.
Veloce, non pensare
l’inganno dell’inchiostro
senza la nostra scelta, nero
e medicina consumata.
Portici antichi
affreschi
teste abbassate:
che diagnosi per noi comete?
Una Bologna d’ombrelli, non resina
dentro profumi natalizi
e alberi illuminati,
con i nostri zaini scavati,
con i nostri regali rimandati.
Non ingombra il respiro
Se ne va con una parte di me
l’inizio di un ricordo:
la bici lungo i viali
allontana il suo punto
e non so se pedalare avvicini
le parole a ogni tocco diradato.
Ruota la risacca del tempo
fino all’orlo dei raggi
porta con sé tutto quello che può
ma il segnalibro migra sempre
preciso nel puntare la luna
dentro l’azzurro del mattino.
Non ingombra il respiro
attraverso il pavimento e il soffitto,
eppure un nodo riverbera l’ombra
estesa sull’asfalto
quanto ci siamo sconosciuti
per non riconoscerci botole
funambole, quanto ci siamo persi
nelle pozzanghere schivando l’orma,
mentre le nuvole
basse e bianche riaffiorano
come boe nel mare.
Lasciare il vento
Mi dicevi che ieri eri
solo la lacrima disabitata
di un orizzonte
senza Non ti scordar di me
una rugiada della ruggine.
L’orologio risuona il porto
corrode la buccia delle custodie
il cielo trasformato di continuo
ha il sentimento del mimo
nella scia degli aerei.
Ascolta un paradosso libero
la chiave che non gira le fessure:
la fine dell’alba scioglie i suoi lacci
di lanterne più forti nell’aurora.
Secchielli aperti
invertono la mano sulla sabbia,
le nostalgie più profonde
sanno lasciare il vento.
Cosa resta dei vetri
Musiche immobili, scarnificate
di vacanze già respirate
sono qui, ad aspettare che mentano
il clic di un interruttore, i notturni
verdi vetri levigati dalle onde.
Ma lo senti, serio sul viso
una cartolina non destinata
una pietra lanciata troppo avanti
arresa chissà dove
tra gli odori pungenti dell’estate
che si sbriciola nella folla:
le bancarelle brillano agitate
vele incendiate
negli incroci, nelle vie incrinate
di luce in luce arenate nel vento
chiamato, scorporato
incapace di riconoscersi.
L’AUTRICE
Elisa Nanini (8 marzo 1994) è nata e vive a Modena. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna. Attualmente prosegue gli studi umanistici in Italianistica, Culture letterarie europee, Scienze linguistiche all’interno del medesimo ateneo. I suoi versi sono stati selezionati nello spazio La bottega di Poesia de «La Repubblica», edizione di Bologna (maggio 2019), nei concorsi poetici Mosse di Seppia Cafè Vol. V (2019), Rimalmezzo (2020), In memoria di Don Carlo Lamecchi (2021) e nelle riviste on line «Il Visionario» (marzo 2021) e «Spine Produzione» (aprile 2021). Ha partecipato al Poesia Festival (edizioni 2019 e 2020). Ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Cosa resta dei vetri (Corsiero Editore 2020), con nota critica di Alberto Bertoni. È stata ospite del salotto digitale «Carta Vetrata» (9 dicembre 2020) e di «Hermes Magazine» (9 febbraio 2021).