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Gli “Esercizi di addio” di Piera Oppezzo. Un’intervista a Luciano Martinengo | L’Altrove

Nella vita, o si vive o si scrive, intento, quello di Piera Oppezzo, che è stato raggiunto, caparbiamente. Lei ha scritto. E leggendola non si può rimanere indifferenti davanti a quella forza, quasi tormentosa, che la contraddistingue.

Nata nel 1934 in una famiglia di umili origini, i primi lavori come aiuto sarta, commessa, dattilografa per la Rai e poi il trasferimento a Milano, l’esordio poetico nella bianca di Einaudi nel ’66 con L’uomo qui presente, poi gli anni di piombo, il femminismo, poche altre raccolte pubblicate e la solitudine fino alla morte nel 2009.

Una vita silenziosa, verrebbe da pensare. Ebbene, no, non propriamente.
La poetessa ha inciso la sua esistenza, ne ha lasciato tracce, in una così disperata maniera. Ciascuna poesia della Oppezzo riesce, in un modo suo, a impossessarsi della mente del lettore, a prendersi quello che le spetta.
La tensione emotiva che scaturisce dai versi della poetessa è considerevole, dense sono le immagini che ne derivano, seppur essenziali e prive di fronzoli, e quella coscienza di un dolore quasi innato, di una sofferenza costante da cui difficilmente tentò di liberarsi.

La sola cosa che le fu essenziale fu la scrittura, l’atto da compiere.
Ed oggi questa sua scrittura ritorna a farsi sentire, a urlare, nelle pagine di Esercizi di addio, la raccolta di Interno Poesia, uscita nella collana Interno Novecento il mese scorso.

Si tratta di un corpus che contiene le poesie scritte tra il 1952 e il 1965, quelle ancora inedite del periodo torinese della Oppezzo.
Il libro si apre con la prefazione di Giovanna Rosadini e successivamente con un ricordo di Luciano Martinengo, l’amico a cui, in punto di morte, disse «mi raccomando, le mie cose».
È grazie a queste cinque parole sussurrate che oggi possiamo leggere il lavoro oppezziano nella sua completezza. Il regista e scrittore torinese è, infatti, il curatore di questa raccolta e di una precedente, Una lucida disperazione, pubblicata da Interlinea nel 2016.

Questi testi lasciati così ordinatamente disposti, provano quanto la poetessa abbia tenuto alla sua poesia e il suo verseggiare dimostra la sua capacità di sperimentare linguaggi nuovi, temi e termini che poi si evolveranno nei futuri libri, anche in quelli in prosa.
Una poetica del tormento, tra illusione e tristezza, fatta di pochi lampi felici e creduti in conflitto con la propria vita. Un esercizio continuo, incessante, sofferto e coerente verso l’addio.

Per l’occasione abbiamo fatto alcune domande a Luciano Martinengo, il quale ci ha gentilmente risposto.

Anzitutto la ringraziamo. Ha curato “Esercizi di addio” per Interno Poesia. Com’è nato il volume? C’è ne racconterebbe la genesi?

Il volume è nato da una presentazione che ha tenuto Giovanna Rosadini, la quale mi ha presentato Andrea Cati di Interno Poesia. Quel giorno insieme abbiamo pensato valeva la pena fare uscire una seconda raccolta delle poesie di Piera Oppezzo.

“Esercizi di addio”, perché questo titolo?

Il titolo è stato scelto da Andrea Cati, l’editore. C’è sempre una certa ambiguità nel lavoro di Piera Oppezzo che abbiamo rispettato in questo titolo. È un addio non alla vita, ma a ciò che a lei non interessava nella vita normale, come il lavoro, le relazioni. Ma questa è solo una nostra interpretazione. Allude in qualche modo al suo addio finale. È come se tutta la sua vita fosse un’esercitazione a questo addio non avendo risolto nessuno dei problemi che si era posta. Tutta la sua opera non è che la manifestazione delle domande che lei si è posta nella sua vita, negli ultimi anni, soprattutto, le sue domande ruotavano sull’essere vivente. Aveva inventato un suo personaggio, sui generis, un vivente,attraverso il quale si poneva domande alle quali era impossibile trovare risposte, come “che senso ha la mia vita?”, “cosa ci faccio qui?”, lei però non le esplicita in questo modo così ovvio.

Crede che a Piera Sarebbe piaciuto questo titolo?

Sì, credo proprio di sì. Proprio per queste ragioni.

Il libro raccoglie le poesie inedite di Piera Oppezzo. Come è avvenuta la scelta dei testi? È stato difficile?

La selezione è stata molto semplice.
Quelle pubblicate in “Esercizi di addio” sono i componimenti che non sono stati pubblicati nelle raccolte precedenti e sono, quindi, relative ai primi dieci anni circa di attività letteraria di Piera Oppezzo. Poesie scritte prima ancora del suo libro di esordio, “L’uomo qui presente”. Un esordio molto importante. Lei ha lasciato tutti i suoi scritti in maniera molto ordinata, in ordine cronologico. E testimoniano l’evoluzione del suo stile, del suo linguaggio.

Lei e Piera vi siete conosciuti negli anni ’70. Ci racconterebbe del vostro incontro? Che ricordo ha della lei di quel periodo?

Noi ci siamo conosciuti perché abbiamo condiviso un appartamento. A quell’epoca io viaggiavo molto tra New York e Milano e quando tornavo a Milano una mia amica, che avevo in comune con Piera, mi offrì di abitare insieme durante questi miei soggiorni milanesi. Poi i miei soggiorni si sono allungati a causa del mio lavoro. Quindi l’ho conosciuta per caso.

Un caso fortunato, direi.

Penso che lei fosse curiosa di incontrare una persona che non aveva condiviso le sue esperienze nella Milano degli anni ’60, perché io mi trovavo all’estero.
Nell’immediato ci siamo accettati senza problemi. È stata un’abitudine alla coabitazione, che non ci dava fastidio e questa convivenza apportava comunque qualcosa ad entrambi. Lei mi faceva conoscere persone che potevano interessarmi e anch’io a lei. Non posso parlare di un’amicizia che avesse qualcosa in particolare, posso dire che ho avuto altre amicizie nel vero senso del termine, ma la nostra è stata benefica e prolifica.

Piera, quindi, le affidò le sue “carte”, un ultimo segno della vostra amicizia. Cosa vi ha legato in tutti quegli anni? Ci pare di capire che vi siete rispettati reciprocamente.

Sì, questa è la parola chiave. Eravamo rispettosi l’uno con l’altra.
Questo deriva dal fatto che entrambi siamo nati a Torino e questo senso del rispetto è senz’altro una qualità radicata nei torinesi.
Io e Piera siamo stati molto riservati, ma allo stesso tempo comunicavamo anche in silenzio, perché avevamo in comune questo codice.
Nei suoi ultimi giorni, mi lasciato le sue cose, raccolte in due scatoloni. Tutto molto ordinato, come ho detto. Piera doveva essere certa che il suo lavoro non sarebbe andato perduto. Ho mantenuto la promessa.

La Oppezzo sembra aver fatto della vita quasi una nemica, della solitudine un rifugio.
“A suo tempo decisi che l’atto di scrivere è l’atto principale che ritengo di dover compiere“, dichiarò in un’intervista.
Un atto volontario per essere dimenticata?
Eppure, la sua, è una poesia che resiste.

Piera non voleva essere dimenticata, di sicuro.
Per lei la poesia era molto importante, ma lo era anche l’essere riconosciuta come poeta. Quest’ultima cosa, negli ultimi dieci, quindici anni, era divenuta quasi un’ossessione.
Lei viveva soltanto di poesia, non si curava di altro. Viveva in condizioni davvero precarie, con pochi soldi.
Poi il suo rifiuto alla socialità ha portato ad essere dimenticata. La sua vita è stata vuota di comunicazione.
Era difficile per lei trovare editori disposti a pubblicarla, ed è stata anche osteggiata. L’Einaudi non ha preso sicuramente bene il suo modo di andarsene, quasi spaccando la porta, dopo il rifiuto di pubblicarla dopo poco. Per lei era un’urgenza pubblicare quel testo che trattava della situazione politica di quel periodo e non le interessavano la questioni commerciali della Casa Editrice. Lei non ha mai scritto per soldi, ma per esigenza. Per vivere faceva la Babysitter, con umiltà.

Non è la prima volta che curi un libro sulla poesia di Piera. Sei stato alla regia di un film documentario su di lei. Approcciarsi alla figura di questa straordinaria poeta che emozione ti dà?

Un’emozione puramente intellettuale.
Per me mettere le mani nelle sue cose, innanzitutto, è stato importantissimo.
Come ho già detto, è stato interessante ritrovare quello che lei aveva racchiuso in quegli scatoloni, cioè l’essenziale, tutto ciò che aveva scritto in ordine, le sue recensioni e alcuni appunti su dei quadernetti, dei pensieri che non aggiungono nulla di nuovo a quanto già pubblicato. C’erano anche poche lettere o le cartoline ricevute, nulla di rilevante.
Quello che si trovava lì era appunto ciò che voleva lasciare al mondo, la sua stessa essenza.

Che funzione ha la poesia di Piera nella sua vita?

L’interesse per la sua poesia mi ha aiutato ad approfondire un tema che non ho mai potuto apprezzare al meglio. A scuola, come tutti, ho studiato i soliti Leopardi, Manzoni.
Piera, con la sua dipartita, mi ha messo davanti il suo corpus poetico e leggerlo è stato fondamentale. Ho capito che il contenuto della sua poesia è un’ambiguità continua, di domande continue, di un rincorrere qualcosa di indefinito e il suo stile è un po’ come l’arte contemporanea, piano piano ti entra dentro e diventa parte del tuo vocabolario.
Ho tratto un vantaggio nel leggere i suoi versi, un giovamento che non credevo di poter avere.

C’è un verso che porta sempre con sé?

L’ultima poesia che ha scritto, “Il mondo c’è” dalla raccolta “Una lucida disperazione”. Voglio credere che sia una sorta di testamento. Sono gli ultimi versi che ha scritto prima dell’incidente che poi è stato la causa del ricovero e della sua morte ed è una poesia completamente diversa da quelle scritte in precedenza.

Il mondo c’è

Che cerimonia
l’avvio della giornata
Quell’annuncio che il mondo c’è
non smette di abbagliare.

Ci viaggi dentro
oggi come ieri come domani
C’è. C’è. C’è. Non puoi
non puoi che sbalordire.

Di seguito un estratto della raccolta:

Perdono

Perdono sempre
alle cose
che si negano a me;
ho pietà
del mio dolore
è così risorge.

febbraio ’55



La sorpresa per noi è in noi

La sorpresa per noi è in noi
Nella violenza dei desideri
Che sospesi tra incoscienza e maturità
Sì avventa o sull’oggetto
Lo paralizzano nei nostri riguardi.

«Ti avrò. Ti avrò.»
Ma il monologo è un turbine
Si placa dopo qualche mulinello
Muore in silenzio.

’60


Entriamo in questa luce

Entriamo
In questa luce
Giochiamo
In questo spazio
Ad orientare
Le svolte del pensiero
Verso
Un respiro tonico

’62



Amore

Ti amo, per le infinite
strade del mondo,
per i giorni di pioggia
e l’accendersi lento del sole:
tutte cose che vedo ricordandoti.
Ma, soprattutto, ti amo
per la tua consapevole vita.

settembre ’56



Per accettare la sua vita

Per accettare la sua vita
Sovente, l’uomo,
Si presenta alla natura,
Cerca un’esigenza diversa
Nella stagione nuova

Ama per amare
E con la stessa intensità
Sia il caldo che il gelo
Nel loro irrompere

Felice di questi avvenimenti
Se lo avvolgono, lo portano
Nella densità, nello spessore,
Del sentire. La sola cosa
Che ama veramente.

’61

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