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Le più belle poesie per la Festa della mamma | L’Altrove

La madre è presenza costante nella nostra vita.

Ecco una selezione di poesie per le mamme, per la loro festa, tra amore, dolore, vita e morte.

Una donna pianta dalla figlie, Adrienne Rich

Ora, prima di ogni lacrima,
noi sediamo qui nella tua cucina,
come vedi, già esauste.
Tu ti sei dilatata
fino ad oltrepassare
la casa e il cielo intero.
Tu, che siamo riusciti
così spesso ad ignorare!
Tu che la morte ha gonfiato
come un cadavere emerso dal mare;
ci schiacci col tuo peso.
E tuttavia eri foglia,
filo di paglia volato sul letto,
da tempo eri croccante
come un insetto morto.
Se non tu, allora cosa
si posa su noi ora,
come il raso con cui hai velato
il nostro capo il giorno delle nozze?
Niente era mai abbastanza.
Tu ora respiri su di noi
tramite affermazioni solide
di te: cucchiaini, calici,
mari di tappeti, foreste
di vecchie piante da innaffiare,
un vecchio nella stanza accanto
da accarezzare e da nutrire.
E tutto questo mondo
ci sfida a muovere
un dito, anche se non esattamente
come avresti voluto tu.


Mia madre, Attila József

Da una settimana penso solo alla mamma,
sempre di nuovo mi fermo a ricordarla.
Lei che saliva in soffitta,
con un cesto pesante in mano, lesta.
Io ero ancora un uomo sincero,
urlavo e scalpitavo
che lasciasse il bucato ad un altro,
che portasse me lassù, in alto.
Ma lei andava e stendeva
Non mi sgridava, non mi guardava,
E i panni lucidi, fruscianti
Spiccavano il volo in alto.
Non piangerei più adesso, ma è tardi,
Vedo solo ora quanto è grande,
I suoi capelli grigi si muovono nell’alto,
scioglie il turchinetto nell’acqua del cielo.


Mamma, Toyo Shibata

Adesso che come lei
ho compiuto novantadue anni
ripenso a mia madre.

Com’era straziante
tornare a casa
dopo essere andata a trovarla alla casa di riposo!

Mia madre,
che mi seguiva con lo sguardo fino all’ultimo istante,
il cielo plumbeo,
il cosmo scosso dal vento
tutt’ora ricordo con chiarezza.


Lettera alla madre, Salvatore Quasimodo

«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»


Per chi ha vegliato una notte una madre, Vivian Lamarque

Altro che la visione delle immacolate
vette dell’Himalaya, altro che le meraviglie
dei vulcani in ripresa d’attività, altro
che da una sponda osservare le maestose
cascate come nel film Niagara
affacciata alla sponda del tuo letto d’ospedale
la visione della candida collina del lenzuolo
che faticosi respiri fanno sollevare
abbassare sollevare, nella bianca camicia
un ricamo trasale, trema un bottone
di madreperla in precario equilibrio
quieto luccica il termometro
sul comodino posato e luccica
come un’aurora un tramonto il rosa
della flebo e nel sacchetto l’oro
dell’urina e lo scialle bianco fa la collina
coperta di neve tanta neve infatti
stai cercando di formare la frase senti che
freddo qui che freddo che fa?


Le mani della madre, Rainer Maria Rilke

Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.


Preghiera alla madre, Umberto Saba

Madre che ho fatto soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo)
madre ieri in tomba obliata,
oggi rinata; presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.

Pacificata in me ripeti antichi
moniti vani. E il tuo soggiorno un verde
giardino io penso, ove con te riprendere
può a conversare l’anima fanciulla,
inebbriarsi del tuo mesto viso,
sì che l’ali vi perda come al lume
una farfalla. È un sogno,
un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere
vorrei dove sei giunta, entrare dove
tu sei entrata
– ho tanta gioia e tanta stanchezza! –
farmi, o madre,
come una macchia dalla terra nata,
che in sé la terra riassorbe ed annulla.


A mia madre, Eugenio Montale

Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce dal sonno eterno, rotta
felice schiera in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi più infuria, se tu cedi
come un’ombra la spoglia
(e non è un’ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)
chi ti proteggerà ? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto di una
vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell’esilio
folto d’anime e voci in cui tu vivi.
E la domanda che tu lasci è anch’essa
un gesto tuo, all’ombra delle croci.


Calice, Juana Castro

E ora sono
così uguale a te, madre,
che non mi riconosco dentro il vetro
di quel ritratto tuo così presente.
Se sapessi che tutto
quel che ho odiato di te e maledicevo
adesso in me lo scopro
così esatto e recente come il cerchio
d’una pietra nell’acqua, ripetuta.
Vengo ancora a vederti.
Taccami, e le mie dita
metti qui sopra le tue piaghe, ed aprimi
questa rosa di spine nel costato.
Son così tua che il mare la tua voce
per il suo canto copia dalla mia.
E mi sveglio e al momento stesso vivo
quella tua immensa sete, che per sempre
nelle tue ossa vuote
ardeva irrimediabile.
Non sono il tuo fantasma,
voglio, risuscitata, ora crearti
nel filo di chi il mio essere t’ha dato.
Da morta e morta dimmi:
Chi sta allattando chi, serpente mio?


Lontananza da mia madre, Luciano Erba

Tu anche mi appari agli ultimi sogni
e il giorno per te s’inizia
con altro cielo.
Sul treno delle vacanze
cerco il tuo viso
e le nostre stature
il nostro respiro giovane
oltre i larici.
Mi ridico
per ritrovare la tua voce di allora
certi nomi di luoghi
che pronunciavi indicandoli al di qua della valle.
Amarti è questo, e piangere.
Altro non so. La pena
è certa
è il rimorso.

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