Inediti di Daniele Cesaretti | L’Altrove
Il bombice del gelso
Sono un bombice del gelso
faccio tanta seta
costruisco un letto
dove addormentarmi felice
tra i lucenti filamenti
e i miei riposi setati,
ti faccio molto.
Sono un bombice gelsato
sogno di diventare
la tua falena alata,
ma ancora striscio
nei rugosi rami
tra un rivolo di more
e un cielo glassato
di zucchero a velo.
Il tuo bombice del gelso
dal minuto bozzolo
cerato e setato,
un lepidottero, come
mi chiamano nei libri,
io, invece, chiamo te
mia flautata, tenera,
foglia venata,
sei vita.
Mitosi
Avere il piacere, dunque,
di guardare quelle mani
che si muovono, fanno qualcosa,
magari ti struccano composte
o ripongono il cellulare
in modalità aereo sul comodino,
scostano la suola del tacco
dalla pianta del piede,
o lavano il viso appena struccato.
Forse quelle mani ora
ricevono tra i palmi le tue tempie,
portano indietro i capelli
finiti davanti alla vista,
sostengono un libro, leggendolo
al posto dei tuoi occhi stanchi.
Quelle mani, che si alzano
nuove nel giorno bambino,
spezzano un biscotto
e lavorano, fanno qualcosa,
tritano la cipolla cruda
sopra il tagliere di legno
e stringono la manciata di spaghetti,
la gettano nella casseruola cocente.
Quelle mani, da capo ripetono,
strappano via il peso del fare,
gettano scontrini scaduti
accoppiati alle mie lettere,
quelle mani, finalmente,
ti rendono libera.
Il giorno prima
Serenità,
tu che per sempre riposi
sotto la ghiaia umida,
battono fuori le tue gesta
in coloro che si cercano
ancora nel verde degli oleandri
o in una casa diroccata
vinta dall’edera bagnata,
attraverso il lucido riflesso
della notte che impera
con tanta equità mai vista,
distribuendo le passioni
là, dove ricacciano i chiari gelsi,
brucio nascoste occasioni;
l’anima tanto si rattrista
sopra le vigne calme
e spruzzate già di solitudine,
quell’abbraccio strozzato
e malnutrito nel mattino,
solo un lungo addio poteva
tanta forza avere ancora.
Il mestiere di coltivare
Ricordi, o dolce, quando
io piantavo speranze
per sfamare la nostra giocondità
e tu disboscavi promesse:
i tuoi stessi prelibati frutti,
disseccavi tenere terre,
assetate, invereconde,
dove avremmo germogliato.
Una timida gemma pralinata,
coccolata dalla brina fresca
nel gelido mattutino crescere
del giorno, nato breve,
il sussultare d’una piantina
che cercava il suo posto
squarciando le zollette lavorate,
era difendibile con la dolcezza
d’un infinito raggio assolato.
Uno scempio della natura
mal cacato nel freddo di gennaio,
questo siamo stati.
Rum agricolo
Erba medica e semi,
la luna appoggiata sul camino,
vite rigogliose
si propagano nella vorticosa essenza,
ripetuta quanto imprevedibile.
Tre agricoltori parlano a tavola,
bicchieri ambrati luccicanti,
processi creativi interrotti,
polenta e formaggio stagionato.
Falce fienaia puntellata al tufo.
Le fiamme braccheggiate dalla brace.
La piastra di ferro arrugginita.
Oltre la brocca dell’acqua calda,
la padrona di casa
morbida nella poltrona aspetta
una bocca da amare.
L’AUTORE
Daniele Cesaretti è nato a Chiusi nel 1986. È laureato in lettere e filosofia indirizzo Dams e da sette anni si occupa del Teatro Pietro Mascagni di Chiusi, dove ricopre il ruolo di responsabile tecnico. Prima di questo incarico, è stato attore amatoriale. Sin dalla tenera età si diletta nella scrittura per puro piacere personale.