Recensione: “21 grammi di solitudine” di Gianni Venturi | L’Altrove
21 grammi di solitudine di Gianni Venturi (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è il peso poetico di un respiro, il soffio intimo, l’impalpabile essenza del dolore umano, l’evanescenza di sentimenti puri e autentici.
Il poeta, attraverso la fermezza descrittiva, essenziale e distensiva nelle immagini, fende il terreno emotivo tracciando la superficie dei solchi interiori, imprimendo la traccia profondamente radicata delle espressioni viscerali, del mondo sensibile, del patrimonio familiare delle origini e della terra sopra il tempo della vita indifesa e fragile. Si narra che 21 grammi sia il peso dell’anima, pochi granelli inconsistenti sul peso di un destino che ognuno di noi riconosce nella fatalità prestabilita ed imperscrutabile degli eventi.
La poesia di Gianni Venturi si inoltra lungo le condizioni e i sentimenti umani sradicando ogni passaggio spazio – temporale della memoria, frequenta le lacerazioni impulsive e la resistenza nelle intuizioni drammatiche e nostalgiche, nei frammenti di una disperazione in cui la solitudine è al centro di tutto. Il tragitto privilegiato della poesia verso la personale testimonianza dell’autore è presenza illuminata, eco deformata dell’anamnesi, rifugio ancestrale, richiamo ad una trama remota che si svolge oltre i limiti consueti della conoscenza, solitaria e sofferente, dell’umanità.
I versi, affatturati all’efficacia espressiva degli abbandoni, suggeriscono un altrove quieto, un nascondiglio protettivo, dove custodire l’incondizionata immutabilità dell’assenza, nell’ostentato distacco di ogni atteggiamento intellettivo e carnale. L’estrema limitatezza della coscienza umana circoscrive l’evocazione del passato e domina il segno del presente. L’intensità accentuata ad ogni mutamento individuale è luogo di transito e di sosta della creatività, materializza la rappresentazione esplicita e cruda della infranta condizione umana. Il poeta è nel disamore della malinconia, nella perdizione del recupero di un passato che non muore ma che dilata una sconfitta insofferente e vagabonda e pone lo sguardo sulle essenze illusorie dell’uomo, accenna ai turbamenti e ai disorientamenti emotivi, è l’ombra cupa di ogni tormento.
21 grammi di solitudine approda ad un’introspettiva identità, assapora l’incanto suggestivo dei colori e delle forme delle possibilità, assorbe il sollievo dei cambiamenti, prolungando la corposità e la generosità dei ricordi. La dissolvenza rarefatta delle stagioni vitali congiunge la volontà di estendere l’accogliente risposta alla propria natura, alle radici, alle fondamenta che trattengono l’inclinazione di ogni qualità emotiva, in ogni alchimia delle proprie tensioni, confessando la consistenza rivelata dalle percezioni. I versi maturi sono consumati in una misurata e toccante lacerazione spirituale nella lontananza dell’isolamento. Nella semplicità e nella determinazione dei frammenti di un’esistenza svuotata, il poeta delinea scaglie di vita consumata, alla deriva nella nebbia esistenziale dell’uomo, segue la direzione della speranza e della rassegnazione, del coraggio e della paura, donando al valore della coscienza, il riscatto e l’accordo alla salvezza. Il peso sostenuto da chi sopravvive, libero di trasmigrare in altri luoghi del cuore è l’ispirazione per la più dolce elegia.
Alcune poesie tratte dalla raccolta:
abitavo un paese gentile dall’aia fiorita
e danze di fisarmoniche sussurranti
odoravo le campagne di settembre con sorrisi
la canapa era dura come il tempo
in quest’ora d’abbondanza infelice
sorseggio un’acqua fetida non più di fonte
la terra ha brividi
che scuotono
paludi
come la nebbia errante
che di casa in casa si raggruma
un sole amorfo si raggomitola
tra monti di cenere
all’orizzonte
le pietre parlano
la lingua sconosciuta dell’ontano
lo sciamano alti scopre i canti
alla dea del fiume che ravviva novembre
è il canto del vento tra le foglie
questa terra ha silenzi circolari
memorie granitiche
orari definitivi per la vita
come gelo le parole dette
tutto appare chiaro
la maestra scuote dolce il viso trema
il parroco intona il verbo scivola
la vita oltre fondamenta fragili
sono uno sputo di luce e arranco
come l’inverno carezze sperse
tutto perduto memoria e dignità
è tempo di condividere l’assenza
tempo di estrema partenza
c’è un ponte di nebbia che separa le strade
poco battute che conducono ovunque
partecipare condividere aggregare
mi sento la pietra lapidaria
non angolare nel muto dialogare
fuori tempo l’estremo abbandono
L’archeologo osserva compiaciuto i reperti umani
in divenire noi un chicco di luce persiste
l’universo che ha voce accoglie la stella che implode
entropia o fine del clamore
come altari sulla sabbia
lo scorrere delle ere cancella le cose
e nulla resterà
vecchi curvi avanzano dimenticati
come roccia che si sgretola
il tempo che scorre e racconta il silenzio
sono querce nel traffico impetuoso
questa distonia dimentica il passato
spaventa il bimbo in corpo di vecchio
basterebbe un filo di vento qui nella stasi
dove tutto appare bloccato
quasi vuoto il movimento
l’assoluto si tende
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti”
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