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Giornata contro la violenza sulle donne. La storia di Nadia Herawi Anjuman | L’Altrove

Nadia Herawi Anjuman è stata uccisa.

Era una giovane ragazza di venticinque anni quando il suo aguzzino, l’uomo che aveva sposato, l’ha uccisa brutalmente. Perché donna, perché poetessa. Massacrata per aver declamato le sue poesie in pubblico.

Nadia Herawi Anjuman nacque a Herat, in Afganistan il 27 dicembre 1980, in un periodo tumultuoso per la città. Difatti nel ’95 Herat fu conquistata dai talebani e le libertà dei cittadini, specialmente delle donne, vennero ulteriormente limitate. Con le scuole chiuse, anche l’istruzione venne meno e Nadia iniziò a riunirsi con altre ragazze di nascosto alla Golden Needle Sewing School, un circolo di cucito. Ma in quel luogo le ragazze della scuola mettevano da parte ago e filo e studiavano seguendo anche le lezioni dei professori dell’Università di Harat. In quel periodo Anjuman si avvicinò al professore Rahyab, il quale fu suo tutore e la fece conoscere ad alcuni scrittori tra cui Hafiz Shirazi, Bidel Dehlavi e Forough Farrokhzad.

Quando gli Stati Uniti liberarono la città di Harat, Anjuman si iscrisse all’università e si laureò in letteratura. Nel frattempo pubblicò il suo primo libro di poesie Gul-e-dodi (Fiore di fumo).

In quegli anni conobbe il marito, Farid Ahmad Majid Neia, capo della biblioteca. La famiglia di Farid credeva che la poesia fosse una vergogna per loro e non condividevano la passione per la scrittura di Nadia.

Il 4 novembre del 2005, dopo una lite, Farid si scagliò contro la moglie, la riempì di botte e la uccise. A nulla servì la corsa in ospedale, Nadia, quella sera stessa, morì. Il marito venne arrestato assieme alla madre e condannato. Fino all’ultimo tentò di difendersi dalle accuse dicendo che Nadia aveva assunto del veleno e si era, quindi, suicidata.

Nei suoi versi Nadia esprime tutta la sua disperazione. In poesie come Nessuna voglia di parlare, si percepisce l’angoscia e la delusione verso la vita che in quel momento sta vivendo. La poetessa rivela il suo stato d’animo, ammette di essere sola tra il dispiacere e la tristezza, e, soprattutto, bloccata, quando lei vorrebbe soltanto volare via.

Io sono odiata dalla vita, afferma nel verso cardine di tutta la poesia. Nella chiusa, però, ritrova la speranza, la fiducia nelle proprie forze.

Io non sono un debole pioppo / Scosso dal vento dice con veemenza e qui comprendiamo bene quanto dolore abbia abitato la poetessa, ma, allo stesso tempo, quanto coraggio.

I versi di Nadia sono strazianti, non si può rimanere indifferenti leggendoli. Privata dalla sua libertà, la parola fu l’unico strumento che le rimase per denunciare il maschilismo, le barbarie, la durezza di quell’uomo che avrebbe dovuto soltanto amarla.

Nadia Herawi Anjuman è stata uccisa poco prima di dare alle stampe una nuova raccolta di poesie, Yek sàbad délhoreh (An Abundance of Worry), che includeva composizioni che esprimevano il suo isolamento e la tristezza riguardo la sua vita coniugale.
I versi di Nadia sono stati tradotti in inglese da Diana Arterian in collaborazione con Marina Omar.
Le poetesse italiane Ines Scarparolo e Cristina Contilli hanno curato un’antologia di poesie dal titolo Elegia per Nadia Anjuman, in “memoria di Nadia Anjuman Herawi”, Edizioni Carte e Penna, 2006.

Oggi, per la Giornata contro la violenza sulle donne, vogliamo proporvi la lettura di alcune sue poesie.

Divento fumo nello spazio del mio credo
Lentamente mi avvolgo e mi anniento
Finché vengo allevata dalle mani dell’ansia
Nell’abisso del cuore i miei battiti aumentano
E quel battito intende conoscere la terra della fossa del tardi
Mi preparo al momento trascorso
A volte dall’amore arido e dal buon miraggio di una nuvola
Mi trasformo nel più arido deserto salato
Ma l’immaginazione dei miei occhi mi trasforma in acqua
Nel letto della morte per sete, mi trasformo in ruscello
Se arriva a me il capo di uno dei fili della speranza
Divento l’ordito nella sottile trama del cuore
Questo se n’è andato senza commiato, l’immaginazione mi porta via
Sono ancora io che mi riempio di ricordi
Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio.


Nessuna voglia di parlare

Che cosa dovrei cantare?

Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.

Perché dovrei parlare di dolcezza?
Quando sento l’amarezza.

L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.

Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?

Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,
Morire, esistere.

Soltanto io e la mia forzata solitudine
Insieme al dispiacere e alla tristezza.

Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.

Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.
E il tempo per celebrare.

Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.

Sono stata silenziosa troppo a lungo.
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore

Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia
Per volare via da questa solitudine
E cantare come una persona malinconica.

Io non sono un debole pioppo
Scosso dal vento

Io sono una donna afgana
E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi.


Magari

A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida.


Sono imprigionata in questo angolo
Piena di malinconia e di dispiacere.

Le mie ali sono chiuse e non posso volare.

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