Intervista radiofonica a Eugenio Montale, poesia e conflitti mondiali | L’Altrove
L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi 30 anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. Un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri. Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall’artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni c’è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d’allora; ma il fatto è che non mi sarei provato neppure se il rischio fosse stato minimo o nullo.
Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di là, e al di fuori di questi fenomeni. Ritengo si tratti di un inadattamento, di un maladjustement psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche. Coloro per i quali l’arte è un prodotto delle condizioni ambientali e sociali dell’artista potranno obiettare: il male è che vi siete estraniato dal vostro tempo; dovevate optare per l’una o per l’altra delle parti in conflitto. Mutando o migliorando la società si curano anche gli individui; nella società ideale non esisteranno più scompensi o inadattamenti ma ognuno si sentirà perfettamente a suo posto; e l’artista sarà un uomo come un altro che avrà in più il dono del canto, l’attitudine a scoprire e a creare la bellezza. Rispondo che io ho optato come uomo; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte, nel quale poco contavano i grossi avvenimenti che si stavano svolgendo.
L’ipotesi di una società futura migliore della presente non è punto disprezzabile, ma è un’ipotesi economica-politica che non autorizza illazioni d’ordine estetico, se non in quanto diventi mito. Tuttavia un mito non può essere obbligatorio. Sono disposto a lavorare per un mondo migliore; ho sempre lavorato in questo senso; credo persino che lavorare in questo senso sia il dovere primario di ogni uomo degno del nome di uomo. Ma credo altresì che non sono possibili previsioni sul posto che occuperà l’arte in una società migliore della nostra.
Platone bandiva i poeti della Repubblica; in certi paesi di nostra conoscenza sono banditi i poeti che si occupano dei fatti loro (cioè della poesia) anziché dei fatti collettivi della loro società. In un mondo unificato dalla tecnica (e dal prevalere di una ideologia) io non credo che i poeti «individualisti» potrebbero costituire un pericolo per lo Stato o il Superstato che li ospiti (o li tolleri). È possibile concepire un mondo in cui il benessere e la normalità dei più lasci libero sfogo all’inadattamento e allo scompenso di infime minoranze. È altrettanto possibile l’ipotesi che il dissidio sia risolto sia risolto manu militari, sopprimendo l’individuo inadattabile. Quello che appare invece improbabile e indimostrabile è l’automatico – o rapido – avvento di una età d’oro (nelle arti) non appena sia mutata la struttura sociale.
Dopo questa premessa posso dirvi, in risposta alla vostra domanda, che io gli avvenimenti che fra le due guerre hanno straziato l’umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare. Nel mio libricino Finisterre (e basta il titolo a dimostrarlo) occupa tutto lo sfondo anche l’ultima grande guerra, ma riflesso. Nondimeno la mia reazione era tale che il libro sarebbe stato impubblicabile in Italia. La stampai a Lugano nel 1943. La sola epigrafe iniziale sarebbe stato fumo agli occhi dei censori fascisti. Essa dice: Les princes (cioè i dittatori) n’ont point d’yeux pour voir ces grandes merveilles, leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter. Sono versi di un uomo che di stragi e di lotte s’intendeva: Agrippa d’Aubigné. In definitiva, dettero al mio isolamento quell’alibi di cui esso aveva forse bisogno. La mia poesia di quel tempo non poteva che farsi più chiusa, più concentrata (non dico più oscura). Dopo la liberazione ho scritto poesie di ispirazione più immediata che per certi lati sembrano un ritorno all’impressionismo degli Ossi di seppia, ma di un più cauto controllo stilistico. Non vi mancano accenni a cose e fatti d’oggi. In ogni modo sarebbe impossibile il pensarle scritte dieci anni fa. E perciò, a parte il loro valore, che non posso giudicare, debbo concludere che mi sento perfettamente a posto col cosiddetto spirito del nostro tempo.
(Intervista radiofonica a E. Montale, raccolta in Sulla poesia, a cura di G. Zampa, A. Mondadori, Milano 1976)