Estratto da “Ti strappo gli occhi” di Valeria Cipolli | L’Altrove
Rewind
E mi riavvolgo
come nastro fetale.
Torno al mio nocciolo
sotto la polpa dei fronzoli.
Torno al guscio,
all’essenziale.
Mi rimetto la coda
riposta nelle tane,
e dai templi
mi riprendo gli antenati,
le viscere tutte
e le radici.
Srotolo il cervello limbico,
accartocciato
nella cesta del ventre,
con le mani di corda tribali
avvolte
nell’arte paziente dell’intreccio,
che rotea ai polsi
dei cicli naturali.
Mi rinfilo l’ombra degli sciamani,
coprendomi col fiuto degli animali.
E innaffio i miti
seminati nei pori aperti della terra.
Siamo tutti un po’ disumani
finché non perdiamo qualcosa.
Ogni volta che gli occhi
mi vanno in frantumi,
e le domande si inginocchiano ai pronomi,
raccolgo
vetrini di vista
e paradossi schizzati qua e là
e mi estraggo dal corpo
per compensazione.
Mi concentro
come decotto antico,
fino a diventar pozione umana.
Mi rannicchio
fino a star tutta in un gomitolo
di evoluzione,
e torno
a me stessa
così filogeneticamente,
che quando ci rincontreremo
saprò guardarti
senza averti visto per niente.
Gnōthi seautón
Mi scavo con le dita,
infinita come una buca,
un pozzo sporco di vita
che non si lascia trovare.
Mi avvolgo
al cigolio dell’istinto.
A stento mi cerco
come la quadratura del cerchio,
l’uscita di un labirinto
che non si fa disegnare.
M’appendo
come filo
in cerca di sospensione,
sull’aria di vetro
in equilibrio obsoleto.
Mi pesco
e non trovo
che lische di tempo
crocifisse sugli altari
del mare.
Camminando
m’appoggio sui miei limiti,
un po’ bastoni
un po’ pietre miliari.
E mi salto a piè pari
come una pagina mancante,
mi leggo in differita.
Mi mantengo
come un segreto
che non si lascia svelare.
Non ce la faccio
adesso a pronunciare
il mio nome.
Scusami
ma è troppo forte
da sussurrare.
Nove mesi
Mi tengo,
mi porto in grembo,
gravida d’anni.
L’anima
di straccio molle.
Troppo gonfia
per partorirmi ormai,
ho doglie visive
che aprono squarci
tra le maglie vive
della realtà
ma cosa c’è al di là?
Spalanco
le ante del sole
per sopravvivenza.
Sembra che io
qui
debba restare
a strizzare i panni
dell’inesistenza,
rammendar
vagiti di vita passata,
infeltrita
e rattoppar ciò che ho di scucito
nell’ordito del corpo.
Suvvia, nove mesi
non posson bastare.
In questa modesta sartoria
la sorte sgronda i minuti
nella cruna del tempo
ma il momento giusto
nel giusto luogo
è un lusso per pochi avventori
del caso.
Appena nata
sarò già orfana
di me.
Umanità
E siamo tutti sciolti,
liquefatti,
su questa terra di carne,
colati
come pozzanghere umane
e inciampiamo
e col cucchiaio
ci raccogliamo,
soli,
inzuppati nel brodo della notte,
dove trattiene ognuno,
come può,
il retrogusto consolatorio
in un boccone di vita che lo inghiotte.
Perdiamo la faccia
strada facendo,
ci ubriachiamo di incontri ardenti
ma siamo astemi nei sentimenti.
Stendiamo i disagi al sole
purché sian di tutti
e facciano clamore.
Siamo sottovuoto,
vuoti di tutto e saturi di niente.
Chiusi nella noia
ermeticamente.
Laggiù, sotto la tonaca
della natura incensata
tra steli di leggerissime dita
la delicatezza coglie i suoi adepti.
Solo un fiore ci può salvare.
In fondo chiediamo
un cielo più grande
dove planare,
soffici nuvole
per atterrare
che accolgano
attutiti,
i lividi di guerra,
per restituire
un giorno
questo cielo alla terra.
Lettera a me bambina
E come potresti tu
restare a galla?
La mia anima
è liquida,
profonda
come una notte
bucata,
talvolta
anch’io ci annego.
Per paura di perdermi
mi stringo
così forte
da farmi male,
mi rinnego
e odo sanguinare.
Di me
ho così paura
e bisogno insieme
che mi somministro,
medicina il giorno,
e veleno prima di dormire.
Mi bevo e mi inghiotto
tutta un fiato
per non sentire
il sapore
del lutto originario
ormai versato.
Sgrana gli occhi l’amnesia.
Avrei dovuto ricordare prima
che ero mia madre.
Ti chiedo scusa
bambina mia,
mi inginocchio
e raccolgo adesso
i tuoi teneri frantumi.
Non dubitare più che io t’ami,
adesso posso abbracciarti,
adesso
che ho le mani.
L’AUTRICE
Valeria Cipolli è un’artista toscana, etrusca della costa come ama definirsi. Sin da piccola inizia a scrivere e disegnare, appassionata ai suoni e alle parole evocatrici di atmosfere e attratta dalla ritrattistica e dal potere degli sguardi. Nella sua formazione classica e linguistica, ha approfondito varie lingue, da quelle antiche alle moderne anche meno conosciute come quella cimrica, a rischio di estinzione, di cui è appassionata e ha redatto una grammatica in italiano. Sinesteta, alla ricerca di suggestioni e percorsi sempre nuovi in cui sperimentarsi, ama la fusione di linguaggi. Mette poesia nei suoi quadri e colori nei suoi versi con una speciale predilezione per gli occhi che le svelano molteplici mondi. Finalista e vincitrice in importanti concorsi di poesia, espone le sue Fanusie (le donne bianche dei suoi quadri) in varie mostre personali e collettive.
Nel 2017 ha vinto il Premio Letterario Nazionale Giovane Holden, sezione poesia inedita.