Giovani poeti: Mattia Tarantino | L’Altrove
Oggi siamo particolarmente felici perché ospitiamo un giovanissimo poeta: Mattia Tarantino.
Mattia ha diciotto anni, ma si occupa di poesia ormai da molto tempo. È uno dei fondatori della rivista Inverso – Giornale di poesia, fa parte della redazione di Menabò e di Bibbia d’Asfalto – Poesia urbana ed autostradale. Per Terra d’ulivi Edizioni ha pubblicato Tra l’angelo e la sillaba (2017) e Fiori estinti (2019).
Per l’occasione abbiamo fatto alcune domande a Mattia e lui ci ha gentilmente risposto.
Grazie, Mattia. Quando hai iniziato a scrivere in versi?
Ho cominciato dalla fine. La linea tra i vivi e i morti passa per l’infanzia: è lì che si manifesta e poi si ottura. Dopo anni di visioni e di storture decisi di chiarire a una bambina cosa provassi per lei. Volevo spostare le costellazioni, in qualche modo; dedicarle una parola informe. Soltanto la sonorità dei versi riuscì, in parte, a restituire al mondo questo disordine.
Chi sono i tuoi maestri?
Il lambrusco e Dylan Thomas: le strutture metriche; le immagini accartocciate e la ferocia delle analogie sono elementi che, nonostante fossero già presenti; pre-esenti in me, hanno trovato forza e conforto in altre voci. Penso a Thomas, certo, ma anche a Bonnefoy, oppure a Rilke. Ci sono poi le figure della periferia che abito e che mi abita, come Emanuele, il mio barista gigante. ‘A vita è ‘nu muorso, mi dice.
Che contributo stanno dando i giovani autori alla poesia italiana di oggi?
Non mi piace parlare di autori. L’autore è troppo vicino all’autorità, al governo di sé e delle cose. Preferisco parlare di poeti. Qualcuno dice stia nascendo una nuova generazione. La verità è che sono nato dopo di loro, agli inizi del nuovo millennio: molti hanno voci attuali, voci che vengono da questa parte della storia. Mi chiedo dove sia finita la tensione all’eternità, la tensione al divenire continuo e irreversibile nella poesia. Al di là di questo, forse hanno ragione: c’è una nuova generazione che sta bussando. Il problema è che mi piacciono le cose ingenerate…
E com’è fare poesia oggi?
La poesia è una vicenda di minoranze per minoranze. È il tentativo di gattonare sulla soglia dei mondi con gli occhi spalancati. Vorrei i poeti lo capissero: ci sono stili differenti, visioni lontanissime. Questo dovrebbe essere un bene; la possibilità di edificare sistemi di variazioni; siano queste di lingua o di pensiero. Invece i poeti cercano di ostacolarsi a vicenda per un po’ di visibilità. Sarebbe meglio cercare l’invisibile, invece; cucirselo alla gola e poi cantarlo.
Infine ecco alcune sue poesie tratte proprio dalla sua ultima raccolta, Fiori estinti:
Ciò che è prima
Nominare, ecco, non il nome
voglio; rivelare tutto ciò
che è prima: carne, e polvere
e miseria e cerchio conoscere.
Indovinare dall’oblio
della memoria quale
astro e quando concepì
la nostra immagine;
disperdere la grazia
di quel che fu un angelo,
e il suo nerissimo talento:
tutto, tutto e tutto
affinché l’oro sia comune
come la malasorte.
Alla fine del mondo
Vieni, arriviamo
alla fine del mondo:
poi ancora un passo, poi
apriamo queste stelle che tappano
il cielo, e le schiere degli angeli.
Vieni, arriviamo
dove l’erba si intreccia
alla luna, e la luna
ci brucia le unghie che toccano
questi fiori avidissimi e storti.
Vieni, arriviamo
a ordinare granello
a granello la sabbia; contiamo
ogni giorno da capo, e ridendo
rovesciamo il cielo e la terra:
dove noi correvamo
ora giocano i passeri.
Dalla croce alla mollica
Ti strapperò alla legge
della polvere, alla
luce che curva nel verso:
c’è un bosco, c’è una stanza, c’è
una voce, e noi danzando
sconfiggiamo le vocali.
Veniamo dalla croce alla mollica.
Fiorire
Dolore di fiorire questo cardo
che collassa nella luce.