L’amore tra Anna Achmatova e Amedeo Modigliani | L’Altrove
Parigi, primi anni del ‘900, quella che diventerà la più celebre poetessa russa incontra uno squattrinato e non così famoso pittore. È l’inizio del legame profondo fra Anna Achmatova e Amedeo Modigliani.
Anna Achmatova si reca a Parigi con il marito Nikolaj Gumilëv, anch’egli poeta, nel 1910, per il loro viaggio di nozze. Qui, conosce il pittore livorsene Amedeo Modigliani, il quale si era recato nella capitale francese qualche anno prima alla ricerca della fama.
I due si incontrano per caso in un famoso Caffè, Anna si siede e ordina qualcosa, lui va al suo tavolo e i due iniziano a parlare. È come se si conoscessero da anni. Poi lei si ricorda del marito rimasto fuori a chiacchierare e scappa via. Fa ritorno in quel locale l’indomani solo per rincontrarlo e lasciargli il suo indirizzo.
Anna torna in Russia e Amedeo inizia a scriverle lettere su lettere. Si mostra come il folle innamorato che vuole dapprima fare lo scultore, circondato da donne che lo idolatrano e da altri che lo disdegnano per il suo modo di vivere e vestirsi. A queste continue lettere, la Achmatova non resiste e gli risponde con versi carichi di desiderio.
Qualche mese dopo il primo viaggio, Anna torna finalmente a Parigi ed è durante questo soggiorno che il rapporto tra le due anime si intensifica. La Achmatova posa diverse volte per il pittore, che in quegli anni cercava una propria identità artistica, ma non solo; i due girovagano per la città nel pieno della notte, si siedono a leggere nei parchi come qualsiasi altra coppia e forse si scambiano pure effusioni.
L’estate finisce, lei fa ritorno nella sua terra e lui rimane lì, a Parigi, dove troverà lo stile che lo renderà famoso in tutto il mondo.
Solo nel 1958 la Achmatova scriverà di questo incontro, scritto che verrà anche pubblicato e tradotto in italiano (Le rose di Modigliani, Il Saggiatore, 1982). Ma è certo che la sua poesia sia stata influenzata fortemente dall’amore per Modigliani.
Della loro storia d’amore ne parla anche Boris Nossik ne suo libro Anna e Amedeo (Odoya).
Ecco come Anna Achmatova descriveva Amedeo Modigliani nel 1958:
Credo molto a coloro che lo descrivono diverso da come l’ho conosciuto. Ed ecco perché. In primo luogo, ho potuto conoscere solo una certa parte della sua (splendente) vita: perché ero un’estranea, semplicemente; ero, a mia volta, una donna di vent’anni che non capiva molto, una straniera. In secondo luogo, io stessa notai in lui un grande cambiamento, quando ci incontrammo nel 1911. In un qualche modo, era tutto incupito, dimagrito. Nel 1910 lo vidi pochissimo, non più che alcune volte. Nondimeno egli mi scrisse durante tutto l’inverno. Non mi disse che scriveva versi […]. Probabilmente io e lui non si capiva una cosa fondamentale: tutto quello che avveniva, era per noi la preistoria della nostra vita: la sua molto breve, la mia molto lunga. Il respiro dell’arte non aveva ancora bruciato, trasformato queste due esistenze: e quella doveva essere l’ora lieve e luminosa che precede l’aurora. Ma il futuro che, com’è noto, getta la sua ombra molto prima di attuarsi, batteva alla finestra, si nascondeva dietro i lampioni, intersecava i sogni e spaventava, con la terribile Parigi baudelairiana che si nascondeva in qualche posto, lì accanto. E tutto il divino scintillava in Modigliani solo attraverso una tenebra. Era diverso, del tutto diverso da chiunque al mondo. La sua voce mi rimase in qualche modo per sempre nella memoria. Lo conobbi che era povero, non si sapeva come facesse a vivere; come artista non era riconosciuto da nessuno. Abitava allora (nel 191 1) nell’Impasse Falguière. Era povero, così che al giardino del Lussemburgo sedevamo sempre sulle panchine, e non sulle sedie che venivano noleggiate. Egli non si lamentava per niente, né della sua reale miseria, né del fatto che non fosse riconosciuto. Solo una volta, nel 1911 , mi disse che l’inverno precedente era stato così brutto per lui, che non aveva potuto neppure pensare a ciò che gli era più caro. Mi parve circondato da un compatto anello di solitudine. Non ricordo che egli salutasse mai qualcuno, nel giardino del Lussemburgo o nel Quartiere latino dove più o meno si conoscevano tutti. Non sentivo da lui neppure il nome di un conoscente, o di un amico, o di un artista; e non ho sentito mai neppure una frase scherzosa. Non l’ho visto mai ubriaco, da lui non veniva odore di vino. Evidentemente si mise a bere in seguito, ma l’hashish in qualche modo figurava già nei suoi racconti. Non aveva neppure una palese amica della sua vita. Non mi raccontò mai delle storie di un precedente innamoramento (cosa che, ahimè, fanno tutti). Con me non parlava mai di cose terrestri. Era molto cortese, non per l’educazione ricevuta, ma per la profondità del suo spirito […]. Le pareti del suo laboratorio erano ricoperte da ritratti di incredibile lunghezza (come mi sembra ora, dal pavimento al soffitto). Non ho mai visto le loro riproduzioni: si sono salvati? Egli chiamava la sua scultura «la chose»: ne fece una mostra, mi pare, agli lndépendants, nel 1911 . Mi chiese di andarla a vedere, ma alla mostra non si avvicinò a me, perché non ero sola, ma con amici […]. Mi portava a vedere le vieux Paris derrière le Panthéon, di notte, quando c’era la luna. Conosceva bene la città, ma una volta ci smarrimmo. Disse: «J’ai oublié qu’il y a une île au milieu (l’île St. Louis)». Fu lui a farmi conoscere la vera Parigi […]. Quando c’era la pioggia (a Parigi piove spesso) Modigliani camminava con un enorme ombrello nero molto vecchio. Talvolta sedevamo sotto questo ombrello su una panchina del giardino del Lussemburgo, pioveva, una calda pioggia estiva, vicino sonnecchiava le vieux palais à l’italienne, e noi a due voci recitavamo Verlaine, che conoscevamo bene a memoria, ed eravamo felici di ricordare le stesse poesie […]. Modigliani amava di notte errare per Parigi e spesso, ascoltando i suoi passi nel silenzio assonnato della via, mi avvicinavo alla finestra e, attraverso la gelosia, seguivo la sua ombra, che indugiava sotto le mie finestre.