Inediti di Fabrizio Sani | L’Altrove
Un fiume
Sdraiato in posizione fetale, in quest’ansa stagnate,
bagnato dal fluire putrido di questo fiume,
mi incurvo, come un sopracciglio, in un riso
maligno e nervoso. Ferito da un colpo alle spalle.
Mangiare le unghie, le dita e una volta terminate
rosicchiare l’osso, a fatica, come avessi denti di legno.
Con lo stesso accento, la stessa inflessione nel pronome
e le stesse pause dici: “tocca il mio ventre”,
dici: “dispongo il mio bagaglio e vado fuori”.
Fosse nel nero di una buonanotte, saprei come orientarmi,
fosse in un capriccio d’estate, saprei come orientarmi,
ma tuttora è primavera e il sole si lascia ancora guardare negli occhi.
Nel comune vuoto planano gli aerei di carta
e si ammassano carcasse in questa insenatura.
Ci sono anche i detriti, i miei organi,
e un punto d’inchiostro che si è essiccato.
Darò una pulita a tutto, sì, e proverò a contare fino a dieci.
Uno strato di polvere si è ormai formato sull’ultima cosa detta.
I miei spiriti mi stuprano come si stupra un bambino,
quel bambino di quattro, cinque anni,
non di più. Mi racconta cos’è un mattatoio.
È come enorme tritacarne, dice,
Serve a mangiare, dice.
Però a me non piace pensarci quando sono a tavola, dice.
Sento il freddo in ogni nervo del mio corpo,
nella vena in bassorilievo che ho sul collo,
un freddo che si mischia col mio sangue e
mi lascia la sensazione che non mi scalderò più.
Si va verso la sera e la brezza diventa blu scuro, di nuovo
un altro anniversario e nessuno che si arrischia a farmi un regalo,
di regali devo rifornirmi da solo e non ho più manco una moneta.
Indugerò. Cullerò il vuoto dei natali disabitati
che mia madre ha scandalosamente partorito.
Questo è il mio rimedio
In una torsione del busto
hai rivelato la spietatezza delle tue bugie,
il tuo cuore senza amore
rimpiazzato con uno grosso, non c’è dubbio,
ma artificiale,
procacciato a forza di buone azioni,
prezzo della redenzione.
Così mi sono messo in lista per un trapianto di polmoni
e inizio a fumare una sigaretta dietro l’altra.
Questo, per ora, è il mio rimedio.
Torneranno a diradarsi le nuvole
ad accendersi i colori dietro la collina dei cipressi;
come cecchini attendono il momento
per sparare il colpo fatale.
Tornerà l’afosa e opprimente serenità dell’estate
a scacciare l’instabilità di questa primavera.
A questo no, non ho rimedio.
L’orizzonte che perpetuo
naviga a scontrarsi con l’universo
è la colpa mia e tua. E di tutto il globo.
Quella che tutta la bontà di cui sei capace non può redimere,
la colpa di essere nati.
Parco d’inverno
Mi ricordo un parco d’inverno.
L’erba umida.
L’ordine complesso con cui il vento
riordinava il ciarpame,
i sentimenti,
riportandoli nei corpi da dove erano sfuggiti.
Mi ricordo le sei di pomeriggio in un parco d’inverno.
La tenerezza sfilacciata di una coppia,
su una panchina trascina un abbraccio oltre il buio.
Mi ricordo una grossa nuvola grigia che correva via velocissima
da quel parco d’inverno
e un corvo nero che a un certo punto ci sparì dentro.
Mi ricordo una lacrima cadere in un parco d’inverno,
con il buio
e l’erba già umida
nessuno ci ha fatto caso.
Il gelsomino, dicono,
è un fiore che ritorna.
Non succede niente
«Che succede?» Mi dici.
«Tutto a posto?» Incalzi.
«C’è qualche problema?»
Certo che c’è qualche problema,
si sta alzando il livello delle acque
troppo velocemente,
in un lago dentro al mio cranio;
sono le lacrime trattenute.
Ho seguita con gli occhi
una maglietta rossa
svolazzare in mezzo alla folla,
e mai una volta
che si sia mossa verso di me.
Eppure, solo poche ore fa,
mi baciava in una cella segreta.
Tieni una giraffa tra le mani,
me la mostri,
lei sì che può arrivare in alto
con quel collo,
ma da lassù non si puoi più mimetizzare,
ma a te piacciono anche gli elefanti,
ma a te piacciono anche le tigri,
ma a te piacciono anche i conigli.
A te non piace avere un animale preferito,
a te non piace avere niente di preferito.
Se provo ad evolvermi ed allungare il collo,
come le giraffe,
per raggiungerti, mio animale preferito,
il mio collo diventa di paglia
e non posso, semplicemente.
I miei denti diventano di paglia
e non posso mangiare la tua foglia.
Poi tu hai questo dogma
lungo e muscoloso
su cui ti sdrai e stai serena,
su cui ti sdrai e ti appiattisci.
Io mi siedo solo su un sentimento
di paglia, e cado.
Mi accorgo desideri che io ti faccia una domanda,
giacché vorresti compiacermi.
Mi accorgo anche che non vuoi darmi una risposta,
che non vuoi aprire una stanza molto segreta,
molto grande,
col collo lungo,
non si può mimetizzare.
E allora ti accordo quell’unica domanda che non richiede una risposta,
una domanda che non ti volevo fare.
Autorizzo i miei desideri a sacrificarsi per esaudire i tuoi.
E guardo quella stanza e guardo te
cercando di imprimere questa scena
accanto a tante altre
Gradirei rammentarle tutte un giorno,
quando capirò,
come se lo sapessi che un giorno capirò.
Come un bambino, imbronciato di gelosia e sospetto,
che attende di diventare adulto anche lui per poter capire.
Una parte di me è meno fiduciosa
e percepisce ogni passeggiata
come una passeggiata tra le nostre rovine.
O peggio, come una passeggiata in un cimitero
con una sola tomba: la mia.
Vorrei urlare
Vorrei urlare: «tiratelo fuori, è ancora vivo!»
«Tiratelo fuori, sono sicuro che è ancora vivo!»
«Tutto a posto», dico, «non succede niente».
L’AUTORE
Fabrizio Sani è nato a Montevarchi (Ar) e vive a Roma. Si è laureato in Arti e scienze dello spettacolo alla Sapienza e sta conseguendo la magistrale in Editoria e scrittura nello stesso ateneo. Per le edizioni SuiGeneris ha pubblicato il suo primo libro dal titolo “Si innamoravano tutti di me e io del loro amore”. Ha collaborato come editor per la casa editrice Empiria ed è redattore per Jobok magazine e Gradozero.