Recensione: “Confini” di Sarah Stefanutti | L’Altrove
La silloge Confini (Ladolfi, 2017) di Sarah Stefanutti si divide in tre sezioni: I viandanti del mare, Sospensioni e Il corpo.
Sin dalla prima sezione, “le muraglie del mare” Mediterraneo “aspro e rauco” formano il più sublime dei confini.
Prima di iniziare la lettura di un libro dai contenuti caldi e di estrema importanza, delicati e brutali – perché attuali – come quelli di Confini, ed affrontare, dunque, un concetto chiave, sottile e non di rado criptico, appunto quello di confine, credo sia significativo interrogarsi su cosa sia il viaggio, chiedersi in che rapporti esso si trovi con i confini, analizzandolo nelle sue molteplici sfaccettature. Un ottimo saggio, a tal proposito, è sicuramente L’infinito viaggiare di Claudio Magris, ristampato nel 2018 da Mondadori per la collana Oscar 451. Magris identifica il viaggio con la persuasione, cioè intende dire che il viaggio è un mezzo attraverso il quale è possibile all’uomo di essere e di realizzarsi, di ritrovarsi. In L’infinito viaggiare, Claudio Magris dice che «Viaggiare non vuol dire solo oltrepassare la frontiera, ma anche capire che si è sia di una riva che dell’altra, che a volte il confine può dissolversi ed apparirci, finalmente, così come appare ai pesci cui Saramago chiedeva “Dov’è la frontiera?”».
Nelle sue poesie civili, Sarah Stefanutti delinea un profilo dell’essere umano e dell’umano migrante visti come uomini-pesci, ricordandoci che tutti siamo un po’ migranti (“Ma sostiamo, attenti,/ in un punto senza tempo”, “affamati d’immagini, cercatori di sogni./ Siamo uguali”). Se è vero che “È più facile rifiutare/ il vicino tuo”, l’Autrice ammonisce e suggerisce di vivere sottraendoci ai limiti (“Mescola te stesso nell’altro/ partendo dal suo idioma./ Non recintarti in ghetti,/ ma ascolta/ con la lingua dell’altro/ il tuo stesso pensiero: / Urta e sfracassa/ i maledetti confini!”. La silloge ha così funzione didascalica oltre che civile. Il migrante è “terra di confine/ che aspetta di ricevere,/ la tessera/ della propria appartenenza” ed è al tempo stesso sospensione che trascende il concetto stesso di confine. Si fa esistenza sospesa, al di là di sé e dei propri confini. Confini sospesi ed identità sospese. In attesa, dunque, di una giustizia che sia tale e non teoria astratta accessibile solamente agli accademici (“Noi, non ci intendiamo/ dei linguaggi di Kant, Hobbes o Rousseau,/ ma del diritto,/ Solo,/ ad una vita migliore”), nella consapevolezza che “la speranza,/ sta nella terra degli altri/ al di là dei confini”. Infine, rilevanti sono diverse domande esistenziali, strazianti, capaci di provocare turbamento nell’animo del lettore (“Madre, perché mi bendasti l’occhio del sogno?/ Perché partoristi in me la guerra, la fragilità, il rifiuto?/ Perché mi soffiasti dentro quel vento che spezzò il mio scudo?”).
Ai confini d’Europa
Sul mare
il vento
è una tromba
che fischia le ore.
Nella pesca d’altura
estraiamo donne e uomini
come anfore dall’acqua.
E affondano
i sogni
i cimiteri salmastri,
ai confini d’Europa.
Mediterraneo,
che rigurgiti i tuoi figli
senza nome,
con la terra
loro
cucita addosso
in sacchetti di plastica.
A primavera
ti tingi ancora,
di vergogna.
La ballata dei dannati
Mi chiamano Caronte
il barcaiolo,
occhi di fuoco
capo lanoso.
Erede d’un mestiere antico,
traghetto anime erranti
da una parte all’altra dei flutti.
Per una moneta sotto la lingua,
l’unico pedaggio ammesso.
Dannate anime,
per luogo di nascita non-scelto,
sull’orlo del mare, vi raccolgo.
La cecità del caso,
ignora giustizia.
Vi meno ciascuna,
dall’altra parte dei flutti.
Per un obolo sotto la lingua,
l’unico pedaggio ammesso.
La speranza,
sta nella terra degli altri
al di là dei confini,
sta nella terra di quelli già cittadini.
Il fiume, lo si deve guadare,
“Ma questo è mare”, dice Amal
e rabbiosa forza, e mortifera.
Per una moneta sotto la lingua,
l’unico pedaggio ammesso.
Si cerca Dio nella barca
“Dov’è Dio?”, grida Iman.
Qui giustizia se la fanno gli uomini in carne,
se la strappano con l’unghia e coi bambini al collo,
se la vendono per il pane che non hanno.
Gli Dei sono fuggiti,
è un mondo errante
quello dei migranti senza oro.
E io li meno,
a piantar una bandiera a terra.
Per una moneta sotto la lingua,
l’unico pedaggio ammesso.
Mi chiamano Caronte,
sulla barca,
perché quest’Acheronte lo guado da sempre,
non l’ho mai lasciato,
non l’ho mai tradito.
Ho visto Speranza morire,
prima che l’occhio abbracciasse la riva.
Ho visto manciate di bocche ridere e spegnersi.
Per una moneta sotto la lingua,
l’unico pedaggio ammesso.
Le ho raccolte una ad una,
senza lapidi e senza fiori,
nel ventre del mare le ho gettate.
Mi chiamano Caronte,
il traghettatore,
e questo pezzo di mare,
è il mio Stige.
I cortili della Husemannstrasse
Trema il vento,
sui platani,
attraversa i cortili,
della Husemannstrasse.
Il nostro spazio urbano
è un fitto bosco erboso,
sorvegliato da caselle di occhi
elettronici.
In punta di piedi
ci entro,
scalza,
dal recinto di lamine.
E scivolo
nel muschio,
fradicio di pioggia.
Mentre straripa il sole,
dai tetti di Berlino,
“Oggi”, penso,
“Il miracolo estivo,
succede anche nel profondo nord del mondo”.
Rovescio il capo,
Si bagna di luce, e luce e ancora luce
“Dov’era finita quest’inverno?
Maledetto il buio.”
Poi l’ombra sotto i rami,
che oscurano la fronte.
In alto, è una cascata di sole,
che scivola e vibra il fogliame.
Il cortile è un vortice,
di mare e di onde.
Quei rami,
i cieli alti
delle cattedrali
che dialogano con le divinità urbane.
Vertigine.
Rovescio il viso
tendo le braccia,
i palmi di mano sono ben tesi.
Cerco il Dio di questa città straniera,
dopo gli alberi
dopo i cortili
dopo la griglia disciplinata di occhi
dopo la punta dei miei piedi
e quella delle miei mani,
in una bottiglia di birra
in un capannone industriale.
Cerco Dio perché mi stringa la mano,
e mi dica che questo cortile, questi gradini
queste strade,
non siano solo per caso,
aria e polvere
in un campo di terra.
Ma Vita,
Mordo
e Grido.
Eredità: la genetica del corpo
Difficile squarciare
quella tela di ferro
che sono le origini.
La più grande delle eredità
è né di cifre né di mattone,
ma è quella che ti si cova dentro,
nelle ferree leggi di Mendel.
A quella non si può niente,
non c’è volontà
o sforzo che possa
sottrarsi,
ai necessari
caratteri ereditari.
Recensione a cura di Vernalda di Tanna
L’AUTRICE
Sarah Stefanutti è una poetessa, ricercatrice e fotografa fiorentina. Laureata all’Università di Oxford, vive in numerose città Europee, che fanno da sfondo alla sua poetica. Nel 2010 esordisce con la silloge Parole attraverso l’Europa (Albatros) ed è segnalata per merito al concorso internazionale di poesia Jacques Prévert. Nel 2017 risulta tra i cinque finalisti al Premio Mario Luzi con la silloge Confini, per la sezione di poesia nascente. La raccolta poetica Confini sarà poi pubblicata con Giuliano Ladolfi editore nel gennaio del 2018. Il suo attuale lavoro artistico consiste nel fondere linguaggio poetico a quello fotografico.