Recensione: “Tempora” di Giulio Mazzali | L’Altrove
Tempora (L’Erudita, 2018) di Giulio Mazzali è una raccolta poetica che sprofonda il lettore nel torpore e nella tipica stasi ripetitiva dell’alternarsi delle stagioni. Quattro sono le parti in cui è scandita la silloge, così come sono quattro le stagioni che determinano un anno. Sono invece innumerevoli le stagioni della vita e presto si riducono, nei versi del poeta, alla breve (e sorprendente) durata delle quattro “tempora”, ossia dei quattro giorni del rito romano della Chiesa Cattolica. Rito che santifica il tempo. Da qui, scarno e solenne, il nome di battesimo della raccolta. “Il tempo è come il mare” dove “tutto torna” in un perpetuo riavvolgersi delle cose, dei sentimenti, della storia e della stessa rassegnazione che spinge il poeta a interrogarsi sul senso primario della convivialità (“l’umanità/ che senso ha?”).
Un velo intessuto di critico pessimismo ed edera è il simbolico macramè sul quale si annoda l’unica risposta che il creato sa restituire alle parole del poeta: “e capisco/ soltanto nell’equivoco/ il senso e il luogo/ della mia generazione” e “l’arte, tutta nostra,/ di non volere in realtà/ alcuna risposta”. Mazzali ci suggerisce che vivere è camminare attraverso le stagioni, affrontando l’essenza di “tutto ciò che siamo stati” e il più radicale nichilismo impersonato dal silenzio. Lo stesso silenzio che mette alla prova il concetto di parole quali “fede” e “appartenenza”, un silenzio che rende sordi al richiamo dell’essenziale. Un Dio che attraversa troppi secoli e riesce a sorridere perfino della sua – e dell’altrui – condizione.
La ripartizione delle stagioni in algide e serene, così come quella di vita e morte, ci restituisce l’immagine dei “bracci di una croce/ che aduna nel suo centro/ infinito/ fine e principio” perché “ciò che ci governa/ è la lotta tra due principi/ apparentemente in guerra”. Oltre alla sacralità delle stagioni attraverso il loro tempo, il richiamo di Cristo è evocato grazie ai versi di Mazzali, e ricorda molto quello della “Deposizione” (conservata a Volterra) ritratta dal manierista Rosso Fiorentino. L’opera d’arte, fuori dal tempo, ammirata nel suo equilibrio precario (condensato nella caduta, lato sensu nella deposizione) è una scivolosa ed ingenua “promessa/ […]/ di un’ultima felicità” o “di una domenica/ senza rinascita”. Come può, dunque, agire e reagire dinanzi a questa ingenuità del dire, la poesia? Ebbene, la poesia reagisce sfogandosi irragionevolmente in modo razionale: qui giace la sua rivoluzione. Infatti, la poesia è “la lunga mano/ della ragione” che scava nel baratro del rimpianto, destinata (forse) a morire nel tempo a causa di questa “nuova umanità/ che erode disperata/ la scoperta della vita”. Nella cristologia della poetica mazzaliniana, Cristo, deposto dalla parola, in Epilogo, è verbo che rivive attraverso la poesia: “si schiude, la parola, e depone/ incerta il suo presentimento”.
A cura di Vernalda Di Tanna
L’AUTORE
Giulio Mazzali è nato a Velletri (RM) nel 1979, ma risiede stabilmente a Cisterna di Latina, dove lavora come insegnante e si dedica alla poesia. Ha partecipato a diversi concorsi letterari, pubblicando, nel 2012 e nel 2016, alcune liriche nelle antologie edite dalla Fondazione Mario Luzi. Tempora è la sua prima raccolta poetica.