Poesie ritrovate: Martin Andrade, "I fuochi e la malinconia"| L'Altrove
Martin Andrade, nato il 20 luglio 1937 nel sud del Cile, è stato poeta, autore, giornalista, attore e regista teatrale. Si è formato in Argentina dove ha partecipato a numerosi allestimenti teatrali, film, programmi radiofonici e televisivi. Ha condotto per diversi anni trasmissioni radiofoniche di poesia in Argentina, Cile e anche in Italia, dove ha vissuto e lavorato per dieci anni.
Ha fondato e diretto per tre anni, a Mantova, Il teatro di Mantua e nella stessa città ha svolto mansioni di Direttore artistico di Radio Mantova. Ha vissuto diversi anni a Parabita, in provincia di Lecce, entrando in contatto e collaborando con raffinati intellettuali del luogo, come Antonio Verri, Salvatore Toma, Maurizio Nocera, Antonio Errico, Donato Valli, Franca Capoti e Aldo D’Antico, che influenzarono profondamente la sua opera poetica.
È scomparso lunedì 24 giugno 2013, a 75 anni, dopo una dolorosa malattia. Le sue spoglie riposano nel Pantheon argentino degli attori del cimitero Chacarita.
In Italia ha pubblicato: I fuochi e la malinconia (Pensionante dei Saraceni, Caprarica di Lecce, 1984), Poesia d’amore (Pensionante dei Saraceni, Caprarica di Lecce, 1985), Sotto il ponte del tempo, (Il Laboratorio, Parabita, 2004).
I fuochi e la malinconia
I fuochi e la malinconia (con introduzione di Alberto Facchini e 4 disegni di Salvatore Toma) è una piccola raccolta pubblicata nel 1984, contenente ventuno poesie di Andrade tradotte da Susana Degoy, con testo spagnolo originale a fronte. I componimenti sono accostati ai disegni del poeta salentino Salvatore Toma.
Le poesie della silloge sono caratterizzate da atmosfere rarefatte e meditative, uso di metafore oniriche e metonimie, peculiarità caratteristica del poeta. Suo marchio di fabbrica anche la trasposizione tra i diversi piani di lettura che le opere offrono: dalla travagliata esperienza personale del poeta si passa infatti all’estensione umana nella sua universale globalità. La sua poesia è, come suggerisce il titolo stesso della raccolta, fuoco e malinconia: passionalità struggente e sensuale intrisa di tenera tristezza, per creare un’armonia unica e potentissima.
“Il titolo della raccolta, chiarificatore già approssimativo dei contenuti, esplicita le due presenze che più ingentemente popolano le immagini poetiche di Martin Andrade in quest’opera. Presenze comunque mai distinte ma al contrario intrecciate e insieme costituenti. I fuochi del passato, così vivi ed identificabili fra le righe, si fondono omogeneamente con i fuochi del presente. La malinconia non è una presenza oscura che fossilizza il presente in una cristallizzazione di ricordi e di nostalgie. La malinconia è la riflessione, è il ponderare fra passato e presente, è la forza invisibile che accompagna e sorregge il fulcro unificante affinché le dorate mele fioriscano alla fine dei tempi dell’odio.
[…] Dal punto di vista stilistico, la ricerca di un linguaggio liberato semanticamente dal suo specifico linguistico dona alla costruzione poetica freschezza e particolarità nuove. La parola è essenziale, ridotta e concentrata in un’espressione che crea paradossalmente, tramite l’estrema incisività, l’atmosfera sfumata di dubbio, di ansia creaturale. La lettura diventa così paragonabile alla visione delle Ninfee di Monet, dai tratti marcati e precisi ma che, ad occhi socchiusi, rivelano atmosfere profonde e indefinite.” Alberto Facchini, introduzione a: I fuochi e la malinconia (Pensionante dei Saraceni, Caprarica di Lecce, 1984).
Buona lettura, buona poesia, buon viaggio tra le parole.
@laideanfossi
volevi qualcos’altro che il leccare le tue vene
nell’oscuro ventre della roccia
qualche lampada
colline che brillano nell’universo
la musica del tempo che si annoda nella corteccia dei giorni
e
sensuali astri che allagano le biblioteche
volevi qualcos’altro che l’inginocchiarti
e chiudere gli occhi in fondo ad un fiume
qualche sole
la moltiplicazione del sorriso
certi modi di accompagnare il tuo vino col canto
e
violini che salgono lungo il tuo petto per andar a fondersi
col ferro
nella tiepidità dei tuoi gesti
nel tuo stupore
e nell’azzurro rumore dei tuoi silenzi
spargo i miei sogni
le mie feroci vendette incompiute
e salgo fino ai tuoi occhi
e nell’istante esatto dell’urlo
il tuo sguardo attraversa gli oceani
copre villaggi prigionieri
semina nostalgie
e ritorna in questa stanza di albergo
ove
nonostante tutto
ci amiamo
A Luciano Provenzano
noi
che abbiamo innalzato santuari nell’aria
pronunciando parole altrui inventando gesti
per morire ogni sera e risuscitare in mezzo a fiori di carta
non abbiamo paura delle tenebre perché nostro sarà il regno del dubbio
e tocchiamo il cielo e l’inferno e gli abissi della tristezza
tocchiamo labbra invisibili occhi che ci guardano nel buio
e alziamo le nostre maschere
in segno di saluto
lei appronta le sue reti denuda le sue feste
apre ventaglie persiane alcoolici
anticipa gemiti lo stupore dei tuoi seni nelle sue mani
lei non parla
fiorisce nei nostri occhi si prolunga
nelle freschezze della notte
cancella il tempo
ci imprigiona nella sua bocca
ci divora
io non sapevo che per raggiungere le tue profondità
fosse necessario
volare
ho percorso i tropici
ardenti sentieri di smeraldi
persi in regioni invisibili fredde
ho attraversato colline in fondo a mari senza nome
sono vissuto in stanze dove ho perso la mia ombra i miei delirii
con ragazze ambigue svolazzanti attorno al mio corpo
ho acceso il silenzio di segreti labirinti
sotto città senza storia
e conosco esseri mitologici e tristi
che ho amato
a volte sorridiamo
prolunghiamo il nostro sangue nell’amata
accumuliamo lettere saluti profumi
persi nelle pieghe di città tristi
inalberiamo sogni che galoppano
sfrenate voglie di saltare
verso altitudini tessute con frammenti
di luce
le furie della mia tenerezza
sfidano il disegno del tempo
coprono il tuo corpo le tue segrete premure
e affondo nei margini della voluttuosità
nei sortilegi dei tuoi sussulti
e abbandono le mie allucinazioni là dove tutte le navi
perdono i loro alberi
A mia figlia Antonella
affinché le dorate mele
fioriscano alla fine dei tempi dell’odio
e la pecora doni il suo calore all’uomo
affinché le città si aprano come i fiori
e fresche le acque del cielo diano il benvenuto
ai frutti del pianeta
affinché siano scritti tutti i libri sotto il sole
e il cerbiatto torni al suo bosco ed il condor alla sua altura
affinché si aprano i lucchetti del pomeriggio
e si liberino le meraviglie del giorno
affinché l’uomo non divori l’uomo
e il fanciullo perda le sue frecce nell’aria
affinché si spargano i canti della libertà
e la loro musica invada tutti i villaggi
morirono coloro che sono morti
Fonti:
Martin Andrade, I fuochi e la malinconia (Pensionante dei Saraceni, Caprarica di Lecce, 1984)
http://www.salentoinlinea.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4479:il-salento-nelle-parole-di-martin-andrade-sotto-il-ponte-del-tempo&catid=78&Itemid=688