Brodskij e l'Arte, dal monologo della premiazione del Premio Nobel|L'Altrove
“Se l’arte insegna qualche cosa (all’artista, in primo luogo) è la privatezza della condizione umana. Essendo la forma più antica come anche la più letterale delle imprese private, favorisce in un uomo, consapevolmente o inconsapevolmente, il senso della sua unicità, dell’individualità, della separatezza – trasformandolo così da animale sociale in un “io” autonomo. Un sacco di cose possono essere condivise: un letto, un pezzo di pane, convinzioni, un’amante, ma non una poesia di, diciamo, Rainer Maria Rilke. Un’opera d’arte, specialmente di letteratura, e in particolare una poesia, si rivolge a un uomo tête-a-tête, entrando con lui in relazione diretta, senza intermediazioni. È per questa ragione che l’arte in generale, specialmente la letteratura, e la poesia in particolare, non è esattamente l’attività favorita da campioni del bene comune, da guide della masse, da araldi della necessità storica. Perché là, dove l’arte ha fatto dei passi, dove una poesia è stata letta, essi scoprono, al posto del previsto consenso e unanimità, indifferenza e polifonia; al posto della determinazione ad agire, disattenzione e pignoleria. In altre parole, nei piccoli zeri con cui i campioni del bene comune e i governanti delle masse tendono a lavorare, l’arte introduce un “punto, un punto e virgola, un meno”, trasformando ogni zero in un volto minuscolo di essere umano, anche se non sempre bello.
Il grande Baratynsky, parlando della sua Musa, la descriveva come dotata di un “viso non comune”. È in questa acquisizione “viso non comune” che il significato dell’esistenza umana sembra risiedere, dal momento che per questo non essere comuni noi siamo, per così dire, preparati geneticamente. Indipendentemente dal fatto che uno sia uno scrittore o un lettore, il proprio compito consiste prima di tutto nella padronanza di una vita che è la propria, non imposta né prescritta dal di fuori, per quanto nobile possa essere il suo aspetto. Perché a ciascuno di noi è data una sola vita, e sappiamo perfettamente come tutto finisce. Sarebbe un peccato sprecare questa occasione per l’aspetto di qualcun altro, l’esperienza di qualcun altro, per una tautologia – tanto più deplorevole in quanto gli araldi della necessità storica, alla cui sollecitazione un uomo può essere indotto ad accettare questa tautologia, non andranno nella tomba con lui né gli daranno neppure un ringraziamento. La lingua e, presumibilmente, la letteratura sono cose che sono più antiche e inevitabili, più durevoli di qualsiasi forma di organizzazione sociale.
La repulsione, l’ironia o l’indifferenza spesso espresse dalla letteratura verso lo stato è essenzialmente una reazione del permanente – meglio ancora, l’infinito – contro il temporaneo, contro il finito. A dire il vero, fino a quando lo stato si permette di interferire con gli affari della letteratura, la letteratura ha il diritto di intervenire negli affari dello stato. Un sistema politico, una forma di organizzazione sociale, come qualsiasi sistema in generale, è per definizione una forma del passato che aspira a imporre se stessa sul presente (e spesso anche sul futuro); e un uomo la cui professione è il linguaggio è l’ultimo che può permettersi di dimenticare questo.
Il vero pericolo per uno scrittore è non tanto la possibilità (e spesso la certezza) della persecuzione da parte dello stato, quanto la possibilità di trovarsi ipnotizzato dalle caratteristiche dello stato, che, anche se è in procinto di sottoporsi a cambiamenti mostruosi o al meglio, è sempre temporaneo. La filosofia dello stato, la sua etica – per non parlare della sua estetica – sono sempre manifestazioni di un “ieri”. La lingua e la letteratura sono sempre manifestazioni dell’“oggi” e spesso – soprattutto laddove esista un sistema politico ortodosso – esse possono rappresentare anche un “domani”. Uno dei meriti della letteratura è precisamente quello di aiutare una persona a rendere il tempo della propria esistenza in modo più preciso, per distinguersi dalla folla dei suoi predecessori così come i suoi numeri come, per evitare la tautologia – cioè, il destino altrimenti conosciuto col termine onorifico, di “vittima della storia”. Ciò che rende l’arte in generale, e la letteratura in particolare, notevole, ciò che li distingue dalla vita, è proprio che aborriscono la ripetizione. Nella vita di tutti i giorni si può dire la stessa battuta tre volte, e tre volte ottenendo una risata, diventare l’anima della festa. In arte, però, questo tipo di comportamento si chiama “cliché”. L’arte è un’arma senza rinculo, e il suo sviluppo è determinato non dall’individualità dell’artista, ma dalla dinamica e la logica del materiale stesso, dal precedente destino dei mezzi che ogni volta chiedono (o suggeriscono) una qualitativamente nuova soluzione estetica. Possedendo una propria genealogia, proprie dinamiche, logica, e futuro, l’arte non è sinonimo di storia, ma nella migliore delle ipotesi parallela a essa; e il modo con il quale esiste è da sempre la creazione di una nuova realtà estetica. Questo è il motivo per cui si trova spesso “davanti al progresso”, davanti alla storia, il cui principale strumento è – non dovremmo, una volta di più, migliorare Marx – proprio il cliché.
Al giorno d’oggi, esiste una visione piuttosto diffusa, che postula che nel suo lavoro uno scrittore, in particolare un poeta, dovrebbe utilizzare il linguaggio della strada, la lingua della folla. Perché con tutta la sua apparenza di democrazia, e i tangibili vantaggi per uno scrittore, questa affermazione è assurda e rappresenta un tentativo di subordinare l’arte, in questo caso, la letteratura, alla storia. Solo se pensiamo che sia giunto il momento per l’Homo sapiens di una battuta d’arresto nel suo sviluppo che la letteratura deve parlare la lingua del popolo. Altrimenti è il popolo che dovrebbe parlare il linguaggio della letteratura.
Nel complesso, ogni nuova realtà estetica rende la realtà etica dell’uomo più precisa. Perché l’estetica è la madre dell’etica; le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo, estetiche, e almeno etimologicamente precedono le categorie di “bene” e “male”. Se in etica non “tutto è permesso”, è proprio perché non “tutto è permesso” in estetica, dato che il numero di colori dello spettro è limitato. Il tenero bambino che piange e respinge l’estraneo o che, al contrario, si rivolge a lui, lo fa istintivamente, facendo una scelta estetica, non una morale. La scelta estetica è un problema molto personale, e l’esperienza estetica è sempre un fatto privato. Ogni nuova realtà estetica rende la propria esperienza una condizione ancora più privata; e questo tipo di privacy, assumendo a volte le sembianze di gusto letterario (o qualche altro genere), può di per sé rivelarsi, se non come garanzia, come una forma di difesa contro riduzione in schiavitù. Perché un uomo di gusto, in particolare di gusto letterario, è meno soggetto ai ritornelli e agli incantesimi ritmici peculiari di qualsiasi versione di demagogia politica. Il punto non è tanto che la virtù non costituisca una garanzia per la produzione di un capolavoro, in quanto il male, soprattutto il male politico, è sempre un cattivo stilista. Più sostanziale è l’esperienza estetica di un individuo, più sonoro il suo gusto, più nitida la sua attenzione morale, più libero – anche se non necessariamente felice – egli sarà. È proprio in questo senso applicativo, piuttosto che platonico, che dobbiamo capire la frase di Dostoevskij che la bellezza salverà il mondo, o la convinzioni di Matthew Arnold che saremo salvati dalla poesia. Probabilmente è troppo tardi per il mondo, ma per il singolo uomo rimane sempre una possibilità.
L’istinto estetico si sviluppa nell’uomo piuttosto rapidamente, perché, anche senza rendersi conto pienamente ciò che egli è e ciò che richiede in realtà, una persona sa istintivamente ciò che non piace e cosa non gli si addice. In un rispetto antropologico, lo ripeto, l’essere umano è una creatura estetica prima di essere un problema etico. Pertanto, non è che l’arte, in particolare la letteratura, sia un sottoprodotto dello sviluppo della nostra specie, ma proprio il contrario. Se ciò che ci distingue dagli altri membri del regno animale è la parola, allora la letteratura – e la poesia, in particolare, è la sua forma più alta – è, per dirla senza mezzi termini, lo scopo della nostra specie. Sono ben lontano dal suggerire l’idea di una formazione obbligatoria per comporre in versi, tuttavia, la suddivisione della società in intellighenzia e “tutto il resto” mi sembra inaccettabile. In termini morali, la situazione è paragonabile alla suddivisione della società in ricchi e poveri; ma se è ancora possibile trovare alcuni motivi puramente fisici o di carattere materiale per l’esistenza delle disuguaglianze sociali, per la diseguaglianza intellettuale questi motivi sono inconcepibili. L’uguaglianza in questo senso, a differenza di altre situazioni, è stata garantita dalla natura. Sto parlando non di istruzione, ma di educazione nel linguaggio, la minima imprecisione in cui si può innescare l’intrusione di una falsa scelta nella propria vita. L’esistenza della letteratura prefigura l’esistenza sul piano della letteratura di considerazione – e non solo in senso morale, ma anche lessicale. Se un pezzo di musica permette ancora a una persona la possibilità di scegliere tra il ruolo passivo di chi ascolta e quello attivo di chi la esegue, un’opera letteraria – dell’arte, che è, per dirla con Montale, disperatamente semantica – lo costringe solo al ruolo di esecutore. In questo ruolo, mi sembra, una persona dovrebbe apparire più spesso che in qualsiasi altro. Inoltre, mi sembra che, a seguito dell’esplosione demografica e dell’attesa di una sempre crescente atomizzazione della società (cioè, il sempre maggiore isolamento dell’individuo), questo ruolo diventi sempre più inevitabile per una persona.
Non credo di sapere di più sulla vita di chiunque altro della mia età, ma mi sembra che, in qualità di interlocutore un libro è più affidabile di un amico o di una persona cara. Un romanzo o una poesia non è un monologo, ma la conversazione di uno scrittore con un lettore, una conversazione, ripeto, che è molto privata, e che esclude tutti gli altri – se si vuole, mutualmente misantropica. E nel momento di questa conversazione lo scrittore è uguale al lettore, e viceversa, indipendentemente dal fatto che lo scrittore sia grande o no. Questa uguaglianza è uguaglianza di coscienza. Rimane in una persona per il resto della sua vita, sotto forma di memoria, nebbiosa o distinta, e, prima o poi, in modo appropriato o no, condiziona il comportamento di una persona. È proprio questo che ho in mente nel parlare del ruolo di esecutore, tanto più naturale per uno perché un romanzo o una poesia è il prodotto della solitudine reciproca – di scrittore o di lettore. Nella storia della nostra specie, nella storia di Homo sapiens, il libro è lo sviluppo antropologico, simile in sostanza all’invenzione della ruota. Essendo emerso per darci un’idea non tanto delle nostre origini quanto di ciò che il sapiens è capace, un libro costituisce un mezzo di trasporto attraverso lo spazio dell’esperienza, alla velocità necessaria per sfogliare una pagina. Questo movimento, come ogni movimento, diventa una fuga dal denominatore comune, da un tentativo di elevare la linea di questo denominatore, precedentemente mai situato al di sopra dell’inguine, al nostro cuore, alla nostra coscienza, alla nostra immaginazione. Questo volo è il volo in direzione del “visage insolito”, in direzione del numeratore, nella direzione dell’autonomia, in direzione della privacy. Indipendentemente dalla immagine nella quale siamo stati creati, ci sono già cinque miliardi di noi, e per un essere umano non c’è futuro se non quello delineato dall’arte. In caso contrario, quello che ci aspetta è il passato – quello politico, prima di tutto, con tutti i suoi divertimenti di massa della polizia.
In ogni caso, la condizione di una società in cui l’arte in generale, e la letteratura in particolare, siano di proprietà o prerogativa di una minoranza mi appare malsano e pericoloso. Non faccio appello per la sostituzione dello Stato con una biblioteca, anche se questo pensiero mi ha visitato di frequente, ma non c’è dubbio nella mia mente che, se avessimo scelto i nostri dirigenti sulla base della loro esperienza di lettura e non per i loro programmi politici, ci sarebbe molto meno dolore sulla terra. Mi sembra che a una persona che avesse il potere di decidere sul nostro destino si dovrebbe chiedere, prima di tutto, non di come si immagini il corso della sua politica estera, ma quale sia il suo atteggiamento verso Stendhal, Dickens, Dostoevskij. Se non altro poiché la letteratura nel suo complesso è infatti la diversità umana e la perversità, si scopre che è un antidoto affidabile per qualsiasi tentativo – sia familiare o ancora da inventare – verso una soluzione di massa totale ai problemi dell’esistenza umana. Come una forma di assicurazione morale, almeno, la letteratura è molto più affidabile di un sistema religioso o una dottrina filosofica. Dal momento che non ci sono leggi che ci proteggono da noi stessi, nessun codice penale è in grado di impedire un vero crimine contro la letteratura; anche se siamo in grado di condannare la soppressione materiale della letteratura – la persecuzione degli scrittori, gli atti di censura, il rogo dei libri – siamo impotenti quando si tratta della peggiore delle violazioni: quella di non leggere i libri. Per questo reato, una persona paga con la sua vita; se l’autore del reato è una nazione, essa paga con la sua storia. Vivendo nel paese in cui vivo, sarei il primo a credere che ci sia una dipendenza tra il benessere materiale di una persona e la sua ignoranza letteraria.”