L’impiego della lingua volgare nella poetica siciliana
L’impiego della lingua volgare come lingua di espressione culturale risponde, nel corso del ‘200, alle esigenze della classe dirigente mercantile, che nasce e si afferma all’interno della dinamica società comunale.
Al sud, però, dove è ormai consolidato il sistema monarchico di Federico II di Svevia, si verifica un fenomeno diverso: il volgare risponde alle esigenze espressive di una cerchia chiusa e raffinata; tra il 1230 e il 1250 si afferma, all’interno della Corte dell’imperatore, una scuola poetica costituita dagli stessi funzionari di corte -dunque non poeti di ”professione”- che vedono nella poesia una forma di nobilitazione. In questo contesto nasce il genere della poesia lirica, ovvero quel genere in cui il soggetto esprime -all’interno dei suoi scritti- se stesso, mettendo in campo le proprie esperienze e i propri sentimenti.
All’origine di questo genere contribuisce fortemente l’influenza del modello provenzale, della concezione cortese dell’amore che i trovatori avevano cantato. Sono gli stessi trovatori, abbandonando la Provenza dopo la crociata di Innocenzo III contro gli albigesi, a diffondere il gusto della poesia cortese; nell’area settentrionale questo gusto si traduce in una poesia che riprende fedelmente lingua, temi e forme metriche. Ma è al sud, alla corte di Federico II, che quei funzionari-poeti danno vita ad una straordinaria innovazione: essi riprendono i temi amorosi, lo stile e le forme metriche del modello trobadorico, ma non impiegano più la lingua d’oc, bensì il proprio volgare. Quest’ultimo, però, non è il volgare parlato: i poeti siciliani rifiutano i modi bassi e le espressioni colloquiali ed elaborano una lingua raffinatissima, un siciliano illustre, selezionando accuratamente i termini, impiegando termini letterari ricalcati sul linguaggio amoroso trobadorico nonché termini di derivazione latina.
I poeti siciliani danno vita, di fatto, alla prima poesia d’arte in volgare italiano. Purtroppo le testimonianze di questa straordinaria pagina della nostra letteratura sono davvero poche, in quanto le fonti che presentano i testi in lingua originale sono per la gran parte frammentarie: con la dissoluzione della scuola siciliana, infatti, l’eredità poetica viene raccolta da poeti toscani che si occupano della trascrizione di quei testi sovrapponendo le caratteristiche del loro volgare a quelle del siciliano.
L’unico testo che ci è stato tramandato interamente nella sua forma originale è una canzone di Stefano Protonotaro, Pir meu cori alligrari, della quale riportiamo la prima stanza:
Pir meu cori alligrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joi d’amuri è statu,
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
e quandu l’omu ha rasuni di diri,
ben di’cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri:
dunca ben di’ cantar onni amaduri.
L’autore più rappresentativo di questa scuola è sicuramente “Jacopo” da Lentini, notaio alla corte di Federico II, codificatore della forma metrica della canzone e probabilmente inventore del sonetto; due forme particolarmente care ai poeti della scuola siciliana. Il sonetto, in particolare, godrà di grande fortuna nei secoli successivi, mantenendo inalterato lo schema compositivo consistente in due terzine e due quartine di endecasillabi, ma variando lo schema metrico.
Articolo della nostra collaboratrice Irene