Ungaretti: dalle poesie prosastiche alla ricerca dell’essenzialità della parola | L’Altrove
Per Ungaretti arrivare all’essenzialità della parola non fu un percorso immediato.
Le sue prime pubblicazioni furono tra il febbraio e il maggio del 1915 quando, sotto le richieste di Palazzeschi, Papini e Soffici, pubblicò in Lacerba, rivista futurista fiorentina, le prime quattro poesie prosastiche intitolate Il paesaggio d’Alessandria d’Egitto, Cresima, Le suppliche e Sbadiglio.
Nonostante il suo aggancio al futurismo, nei suoi versi s’intravedevano già certe espansioni d’animo che vi si contrapponevano.
Nel 1916, mentre era ancora al fronte, uscì la raccolta Il porto sepolto, inizialmente composta da 80 esemplari.
Il porto sepolto, titolo con alto valore simbolico, tendeva a richiamare il porto antico d’Alessandria d’Egitto inghiottito dal mare.
Ungaretti, ne La vita di un uomo chiarì meglio la scelta del titolo: “Verso i sedici anni, ho conosciuto due giovani ingegneri francesi i fratelli Thuile, Jean e Hanri Thuile. Mi parlavano di un porto, sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era già un porto già prima d’Alessandro, che già prima di Alessandro era una città. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto: Il porto sepolto“
Grazie a questa raccolta per la prima volta il lettore poté assistere alla dissoluzione delle forme e ad una totale e meticolosa pulizia della parola.
In occasione della guerra, di quella sciagurata quotidianità alla quale era costretto, Ungaretti si trovò davanti ad un linguaggio che doveva rinnovare per necessità di circostanze e per necessità d’animo.
“Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo nuovo, in modo terribile. Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da quella tragedia che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro.
Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione.
C’è volontà d’espressione, necessità d’espressione, c’è l’esaltazione, nel Porto sepolto, quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte.
Viviamo nella contraddizione” […]
“E allora stando lì tra la morte, i morti, non c’era il tempo: bisognava dire delle parole decise, assolute, e allora questa necessità di esprimersi con pochissime parole, di ripulirsi, di non dire che quello che era necessario dire, quindi un linguaggio spoglio, nudo, estremamente espressivo… Avevo davanti un paesaggio di desolazione, dove non c’era niente; era un po’ come il deserto: c’era il fango, poi c’erano dei pietroni… Il fango, il fango del Carso, come una delle cose più orribili che si possano immaginare: un fango liscio, rosso, si sdrucciolava su quel fango e poi rimaneva appiccicato. Io ci sono cascato tante volte in quel fango: ero pieno, ero tutto conciato di fango”.